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La tragedia dimenticata degli italiani in Crimea

Foto, pagina FB Associazione degli Italiani in Crimea

Lo scontro tra Ucraina e Russia davanti a Kerch – città portuale della Crimea, ex ucraina e oggi russa, tra Mar Nero e Mare d’Azov – rischia di fare scoppiare una guerra diretta fra i due Paesi. Le forze armate di Mosca sembrano, infatti, intenzionate a ostacolare le navi ucraine che devono attraversare lo stretto di Kerch: è l’unico punto di passaggio per entrare e uscire dal piccolo Mare di Azov, dove ci sono i loro porti.

La tensione tra i due Paesi ha una tragica storia abbastanza nota. Però pochi sanno che tra i due fuochi potrebbero trovarsi, per l’ennesima volta, alcune centinaia di persone con antiche radici italiane: la minoranza vive da quasi due secoli in quella città. Fino al 1917, quei nostri connazionali hanno avuto la cittadinanza zarista, poi quella sovietica, quindi dal 1991 quella ucraina; infine – dal 2014 – quella russa, dopo un discusso referendum e l’annessione armata della Crimea da parte del Cremlino.

Chi sono? Gli italiani di Kerch e dintorni sono i discendenti di contadini e marinai per lo più pugliesi, soprattutto di Trani, Molfetta e Bisceglie; emigrarono lì tra 1830 e 1870 con una minoranza di campani, liguri, piemontesi, sardi e veneti. A metà Ottocento costruirono una loro chiesa, che esiste ancora. Nel censimento del 1897 – secondo dati forniti dall’ambasciata italiana a Kiev – gli italiani costituivano l’1,8% della popolazione nella provincia di Kerch. In quello del 1921 rappresentavano il 2%, nel 1931 erano l’1,3%. All’inizio del Novecento disponevano già di una scuola elementare con corsi d’italiano, poi chiusa. Nel 1928 la scuola venne riaperta; poco dopo, negli anni Trenta, nacque un circolo culturale italiano, finanziato dal kolkhoz (una fattoria collettivizzata sovietica) “Sacco e Vanzetti”. Le famiglie che vivevano a Kerch per lo più portavano i cognomi De Martino, De Cilis, De Lerno, De Doglio, De Pinda, De Fonso, Di Piero, Biocino, Budani, Bruno, Giachetti, Evangelista, Cassanelli, Puppo, Croce, Carboni, Logoliso, Nenni, Ragno, Simone, Spadoni, Scalerino, Scuccimarro, Parenti, Pergolo, Mafioni, Fabiano, Porcelli, Pleotino.

Perché erano finiti laggiù? Lo racconta l’ex professore nella facoltà di Scienze politiche dell’ateneo di Genova, Giulio Vignoli, che nel 2000 con l’editore Giuffrè ha pubblicato Gli italiani dimenticati. Minoranze italiane in Europa: «Ho visitato la chiesa di Kerch – racconta -. Una targa spiega in ucraino e russo che quel luogo di culto fu costruito dagli italiani fra il 1831 e il 1848». Come ci arrivarono? «Furono incoraggiati dalla politica della Russia zarista, che aveva occupato la Crimea ai primi dell’Ottocento, strappandola all’Impero turco. La popolazione maggioritaria era tartara. I russi, allora, cominciarono a colonizzarla, invitando anche altre popolazioni». I pescatori pugliesi, che frequentavano già quelle coste per la pesca allo storione, furono invitati a ripopolarla insieme a contadini e esperti in costruzioni navali, tutti o quasi del Tacco d’Italia, allettati dalle proposte russe e dalla disponibilità di buoni terreni da coltivare. Introdussero persino un tipo di pomodoro che, ai tempi degli zar, finiva sulle tavole dei benestanti di Mosca e San Pietroburgo. In tutto ne arrivarono circa 3.000. Da Kerch gli italiani si diffusero anche a Feodosia (l’ex colonia genovese di Caffa), Simferopoli, Mariupol e in altri porti della penisola di Crimea, soprattutto a Batumi e Novorossijsk.

Dopo la Rivoluzione russa, tra 1919 e 1922, alcuni scelsero di tornare in Italia, scoraggiati dalle confische delle terre da parte del regime comunista; altri si adattarono alla nuova situazione politica. Questi ultimi furono in parte vittime delle purghe staliniane, tra 1935 e 1938. Il giornalista barese Tito Manlio Altomare (ha dedicato loro un documentario intitolato Puglia oltre il Mediterraneo) racconta che, all’epoca, parecchi vennero arrestati, poi deportati o uccisi; tutti furono costretti a rinunciare alla cittadinanza italiana, fino ad allora conservata assieme a quella russa, e anche a trasformare il loro cognomi: per esempio, Ragno diventò Ranjo. Tutte le lingue “straniere” erano vietate, cosicché anche l’italiano fu quasi dimenticato.

Fino alla tragedia finale, nella notte fra il 29 e il 30 gennaio del 1942, con la deportazione nei gulag, i lager sovietici. Infatti, quando l’Armata rossa liberò la Crimea invasa nel dicembre 1941 dalle truppe naziste, i cittadini appartenenti a varie minoranze ((italiani, tedeschi, armeni, bulgari, greci e tatari) furono arrestati con l’accusa «di aver simpatizzato e collaborato con gli occupanti». Le famiglie con radici italiane vennero costrette a raccogliere in fretta quello che potevano, per poi essere deportate nell’Oriente sovietico. Delle tre navi che partirono, una fu affondata dai tedeschi. I prigionieri chiusi nelle stive delle altre due attraversarono il Mar Nero e nel Mar Caspio; stipati nei vagoni piombati durante i tragitti terrestri, finirono in Siberia e soprattutto a Karaganda, città/prigione del Kazakistan fondata già da altri deportati, dal 1926 in poi. Un viaggio lungo 4 mila chilometri e durato un paio di mesi, durante il quale «tutti i bambini e molti adulti morirono di tifo petecchiale», ricorda il professor Vignoli. «Arrivò il tempo di Krusciov, dopo il 1956 qualcuno poté tornare. In Crimea quei nostri connazionali che ebbero la possibilità di rientrare conobbero la più nera miseria. Le loro case erano state sequestrate. Dovettero ricominciare da zero».

Nel censimento del 1989 i cittadini ucraini definiti di etnia italiana risultavano 316, sparsi sul territorio, 56 dei quali a Kerc e undici nella vicina Simferopoli. Renato Risaliti, professore di Storia dell’Europa Orientale a Firenze, nel saggio Un viaggio in Crimea. Incontro con italiani deportati (1997) scrive: «Una di loro mi fa piangere perché improvvisamente si mette a recitare le preghiere in italiano perfetto. Sono l’Ave Maria e il Padre Nostro… Alcuni mi dicono che nei giorni di festa si continuano a fare minestre e dolci di origine pugliese con i loro nomi originari». In un articolo, pubblicato sul “Corriere della Sera” nel luglio 2004, Ludina Barbini ricordava: «Non parlano ucraino, solo il russo e poche parole di italiano, conoscono le preghiere, sanno contare, ricordano anche i versi di qualche canzonetta».

Su “Diario”, l’8 aprile 2005, Margherita Belgiojoso scriveva: «Ippolita Vincenzovna Scolarino, 76 anni, scodella con disinvoltura un chilo di spaghetti al ragù… La signora è l’italianskaija babushka, la nonna italiana della piccola città di Kerch. È la più anziana rappresentante di una comunità di italiani discendenti da emigrati pugliesi. … Parlano russo con qualche intercalare di pugliese. Soltanto la vecchia generazione mantiene ricordo del puro dialetto. L’anziana signora, quando vuole essere capita meglio, infila qualche parola di dialetto. Assettate! dice la signora Ippolita per fare accomodare gli ospiti; e poi offre u’ pan, u’ furmagg, u’ ragù. L’italiano vero e proprio l’ha imparato soltanto Galia Burkal’, figlia di Elisa Scolarino e di Valodia Burkal’, che con una borsa di studio dell’Istituto Italiano di Cultura a Kiev ha studiato nove mesi a Firenze. Galia Y. Scolarino è l’orgogliosa direttrice dell’Associazione Italiani di Kerch “Dante Alighieri”».

Oggi sono circa 500 i membri dell’Associazione degli italiani di Crimea – Cerkio (Comunità degli Emigrati della Regione della Krimea – Italiani di Origine): nata nel 2008, conta su una sede, un giornale online, la chiesa inaugurata nel 1840 e una pagina Facebook. Hanno molta voglia di allacciare rapporti con l’Italia. Tanto che ogni anno, il 9 settembre, celebrano il giorno della memoria per i caduti italiani nella guerra di Crimea del 1855-56, visitando il monumento sul colle Gasforta, vicino a Sebastopoli, costruito nel 1882 dal Regno d’Italia e restaurato nel 2004, «a imperitura memoria dei soldati del Regno di Sardegna» sepolti lì: al conflitto parteciparono ben 20 mila soldati dei Savoia, insieme a quelli di Impero ottomano, Francia e Regno Unito, coalizzati contro l’Impero russo.

Degli italiani di Crimea negli ultimi 15 anni si è occupata spesso – con scambi culturali, sostegno di vario genere e visite reciproche – l’Associazione regionale dei pugliesi di Milano (Arp), dove ha promosso la realizzazione di un monumento che li ricorda. «Gli Italiani di Crimea chiedono il riconoscimento dello status di deportati e il ripristino della cittadinanza italiana per i sopravvissuti e i loro discendenti!», era stato l’appello rivolto il 30 maggio 2013 dall’allora presidente dell’Arp, Dino Abbascià, ai presidenti della Repubblica, del Senato, della Camera, del Consiglio, della Regione Puglia e al Ministero degli Esteri. Finalmente nel settembre del 2015, durante la visita di Silvio Berlusconi in Crimea, il presidente Vladimir Putin ha riabilitato la comunità italiana. Una delegazione di Cerkio, raccontava allora l’agenzia di stampa SputnikNews Italia, «ha avuto l’onore di essere ricevuta» da Putin e Berlusconi a Yalta.

Dell’incontro parlò, Igor Fedorov-Ferri, discendente di una delle famiglie italiane. Il suo racconto: «Quando eravamo ancora sotto l’Ucraina abbiamo inoltrato molte richieste, ma non siamo stati mai ascoltati ed è andato tutto nel dimenticatoio. Dopo il referendum del marzo 2014, la Federazione Russa ha emesso un decreto riconoscendo lo status di deportati ai discendenti di 5 nazionalità presenti in Crimea, ma non a quella italiana. Abbiamo scritto una lettera sul sito del Cremlino, però abbiamo ricevuto solo una conferma che era stata letta. Poi ci ha ricevuto il vicepresidente della Crimea, Ruslan Balbek, che si è interessato alla nostra causa ed ha lavorato per organizzare l’incontro con Putin. Il presidente ha ascoltato la nostra storia e promesso di riscrivere il decreto legge sul riconoscimento delle minoranze deportate dalla Crimea, inserendo la minoranza italiana». Putin mantenne la promessa.

Foto, pagina FB Associazione degli Italiani in Crimea

Negli ultimi anni i giovani di Kerch legati all’Italia hanno ottenuto borse di studio a Roma, Perugia, Udine e Reggio Calabria. L’Associazione ha pubblicato libri e realizzato una mostra sulla storia della comunità. E, a quanto pare, sono stati rintracciati altri piccolo nuclei di italiani di Crimea rimasti isolati, dopo le deportazioni, in varie zone dell’ex Unione sovietica. Stanno pensando di tornare a vivere a Kerch, ma ovviamente molti, in Crimea e altrove, sognano l’Italia. Infatti la presidente di Cerkio Giulia Giacchetti Boico, di fronte alla domanda «Gli italiani in Crimea si sentono più russi o ucraini?», nel settembre scorso ha risposto ad “AskaNews”, un po’ scherzando, un po’ sul serio: «Ci sentiamo più italiani…». Purtroppo, per ora, il riconoscimento della cittadinanza tricolore da parte di Roma resta un sogno.