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L’indifferenza che uccide

«Se la fame è più crudele di Erode, l’indifferenza è più ignobile di Caino». Sono parole del giornalista Igor Man, autore di un reportage, nel 1996, sulla strage di esseri umani per fame e guerre. Quell'indifferenza che nasce dall’incapacità di rintracciare radici emotive
Foto: Internationalwebpost

Igor Man, un bravo giornalista morto una decina di anni or sono, scrisse nel 1996 uno straordinario reportage sul tema della strage che si consuma, giorno dopo giorno, per guerre e fame, nel mondo. Trovo l’articolo tra i ritagli che con tignosa mania accumulo tra le mie carte, brandelli di giornale spesso ingialliti che suscitano il riso divertito di mia figlia e mia nipote che mi osservano manipolarli come fossi una specie in via d’estinzione. Non ho dubbi su chi è dalla parte della ragione. Così Igor Man inizia il suo racconto.

«Un pomeriggio della lontanissima estate del 1954 a Bogotà, uscivo dal sontuoso albergo Tequendama. Mentre il portiere in livrea fischiava per un taxi, mi accorsi d’un fagotto di stracci sull’erba elegante dell’ingresso. Era un bambino randagio. Dormiva. Tornai al tramonto e il bambino era sempre lì. Che fa, chiesi al portiere, dorme ancora? Quello s’avvicinò al bambino randagio: con la punta del piede, delicatamente, lo mosse, come si fa con i gattini. “No, senor, non dorme, è morto”. Morto? “Si, senor, de hambre”. Di fame». A seguire un lucido e serrato atto d’accusa contro le quotidiane mattanze che si consumano in ogni parte del mondo nella generale indifferenza. In Africa soprattutto, scriveva Man, il Continente dove qualcuno localizzò il paradiso terrestre e che accoglie il 40 per cento  dei rifugiati nel mondo.

Così concludeva: «Presto un essere umano su cinque sarà africano. Se gli negheremo la tenerezza (così scrisse, ndr) lascerà la sua terra per invaderci, armato di rabbia e disperazione. Se la fame è più crudele di Erode, l’indifferenza è più ignobile di Caino».

Dopo un quarto di secolo i drammi si ripetono, moltiplicati, e noi non li vediamo. Siamo dei ciechi che, vedendo, non vedono. Non li vediamo nemmeno se accadono sotto i nostri occhi. Peggio, li usiamo come arma contundente per insultare gli altri: «Portali a casa tua se vuoi». Tornare a vedere significa tornare a un’etica della responsabilità che si è smarrita. Oggi siamo così abituati a veder morire che, ben che vada, non battiamo ciglio quando dinnanzi a noi si palesano le ultime immagini di tante tragedie.

Il vecchio cronista, che non è psicologo, non è sociologo, ma solo un testimone di parte del suo tempo, si chiede: perché l’indifferenza, quando non il vile rancore, l’anatema contro i disperati? Una risposta alla fine se la deve pur dare. L’indifferenza nasce dall’assenza di un’educazione emotiva, ovvero dall’incapacità di rintracciare radici emotive. Perché l’emozione è relazione, solo se mi emoziono entro in compiuta relazione con l’altro che cessa di essere altro da me.

Nelle nostre società cosiddette industriali avanzate le cose sono a disposizione prima ancora che sorga un’emozione che faccia da stimolo. Non c’è sollecito alla conquista, perciò le cose si consumano con disinteresse, indifferenza. Il pieno delle cose prende il posto del vuoto delle relazioni mancate. Solo un’educazione emotiva può consentirci di recuperare quegli atteggiamenti morali di cui abbiamo grande bisogno, sopra tutti la compassione, intesa nel suo significato profondo: cum-patire ovvero condividere.

Un esempio lo offre Shakespeare. Nel suo teatro s’incontrano in ogni istante esseri in preda all’illusione che sovente tentano di imporre agli altri, ma anche e prima di tutto di cui si fanno vittime. Ma Shakespeare stesso non sarebbe stato in grado di affidare a figure convincenti questa resurrezione dell’essere nel mondo se non avesse avuto verso i suoi contemporanei uno sguardo di simpatia.