LA PAROLA

Malaria

L’etimologia della parola non lascia spazio a dubbi: malaria deriva dall’espressione mal’aria, di cui è accertato l’uso a Venezia nel XVI secolo, a sua volta derivata da mal aere o mal aire, sempre utilizzato in Laguna nei secoli precedenti e, manco a dirlo, per definire l’aria cattiva, ferma, insana, corrotta, dove il ristagno dell’acqua favoriva lo sviluppo di infestazioni di zanzare. E di quelle della specie più temibile, le famigerate Anopheles, le cui femmine sono responsabili della trasmissione del morbo. È intorno al 1700 che l’espressione divenne un’unica parola utilizzata per definire gli stati febbrili intermittenti, che comparivano per lo più in estate e che spesso portavano a morte certa, nelle persone che abitavano in zone palustri, in Veneto, come nelle campagne laziali e toscane.

Questa malattia esiste da sempre, ne parla Ippocrate, che per primo ne descrisse i sintomi, ci sono evidenze scientifiche di casi di malaria in Cina almeno tremila anni fa, è certo che le “febbri intermittenti” affliggessero anche gli Egizi, gli Assiri, i Sumeri e i Babilonesi. In Italia, parlano di sintomi riconducibili a questa malattia Catone, Tacito, Giovenale, Lucrezio, anche se la specie più pericolosa, causata dal plasmodium falciparum, la stessa che ha ucciso nelle scorse settimane la piccola Sofia, si è diffusa più tardi, presumibilmente a causa degli scambi con l’Oriente e favorita dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente, quando i terreni cominciarono ad essere abbandonati e tornarono a diffondersi le aree palustri.

Alla fine del 1800, in Italia la malaria era il più grave problema di sanità pubblica, una “malattia nazionale”. La maggior parte della Penisola ne era interessata, 69.760 Kmq e 2.635 comuni, tanto da spingere il governo a varare il programma del “chinino di Stato”. Acquistare, cioè, grandi quantità di questo prodotto (l’unico in grado di contrastare le infezioni malariche, ma fino ad allora appannaggio dei più ricchi), confezionarlo in pastiglie, distribuirlo gratuitamente o a prezzi controllati alle famiglie più povere e a tutti coloro che lavoravano all’aria aperta, nelle zone malariche. L’eradicazione della malaria, tuttavia, risale al XX secolo, grazie il concorso di più fattori, tra cui, oltre alla diffusione del chinino, le bonifiche e il massiccio impiego del DDT nel secondo Dopoguerra.

Oggi è tornata a presentarsi, in Italia, complici i viaggi nei Paesi in cui è ancora endemica e la facilità con cui si spostano uomini e merci attraverso il globo, e continua ad essere un grave problema di sanità mondiale. Si parla di casi che oscillano tra i 300 e i 500 milioni, il 90% del quali nei Paesi dell’Africa tropicale. Vent’anni fa c’è stato un caso di malaria autoctona, fortunatamente non mortale come purtroppo quello di Trento, in Maremma. Un evento che allora evocò gli spettri di un passato ancora recente, quando la malattia falcidiava le popolazioni e i badilanti che andavano a bonificare le paludi nelle terre malsane della Toscana meridionale. La malaria di Maremma Amara, il canto popolare triste e straziante che descrive una terra inospitale e racconta la preoccupazione dell’innamorata per il suo uomo: «L’uccello che ci va pere la penna e io ci ho perduto una persona cara».

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