LA PAROLA

Mandrakata

Se si è stati giovani negli anni Cinquanta se ne può comprendere agevolmente l’origine. Se poi lo si è stati a Roma, se ne può comprendere anche il significato. In tutti gli altri casi è molto probabile che la parola mandrakata (pronunciata rigorosamente alla romana, con la “erre” robusta e le quattro “a” nitide e marcate) produca un qualche comprensibile spaesamento.

Eppure l’origine di mandrakata è piuttosto semplice e banale: deriva da Mandrake, il mago dei fumetti, nato sui giornali statunitensi negli anni Trenta dalla penna di Lee Falk e dalla matita di Phil Davis. Mandrake nel suo impeccabile frac nero, con papillon, bastone e cilindro, capelli impomatati e baffetti, spalleggiato dal fido assistente Lothar e dalla bellissima fidanzata Narda, sgominava bande di malfattori e di mostri. Dove non bastavano i muscoli di Lothar arrivavano i suoi giochi di prestigio, i suoi illusionismi, i suoi colpi di magia che non davano scampo agli avversari e gli consentivano di uscire da mille situazioni scabrose.

Inevitabile che le sue gesta divenissero anche riferimento per le vicende quotidiane delle persone comuni nella vita reale. Di fronte a improvvise e inattese manifestazioni di destrezza e di efficienza, si cominciò presto a usare l’espressione: «Ma che sei Mandrake?». O al contrario, davanti a difficoltà insormontabili, all’impossibilità di risolvere un problema o di raggiungere un obiettivo, ci si rifugiava nella considerazione consolatoria e autoassolutoria: «Mica sono Mandrake».

Da Mandrake a mandrakata il passo non è stato però scontato. Per ragioni fonetiche. Se durante il ventennio fascista erano state le norme di autarchia linguistica a suggerire la pronuncia italianizzata di Mandrake (si arrivò anche a sostituire graficamente la “k” con un più tranquillizzante “ch”), dopo la Liberazione è risultata decisiva la caparbia riluttanza romana ad assecondare le pronunce corrette delle parole straniere. Nessun nativo della capitale di metà Novecento avrebbe mai pronunciato Mandrake come gli americani (cioè più o meno Mendweik). Ecco allora che davanti a un’intuizione geniale, a una trovata risolutiva, a una mossa abile e vincente, non priva di cinica furbizia, all’ombra dei Sette Colli ha cominciato ad affacciarsi questo neologismo: mandrakata, che negli anni è diventato tanto consueto da essere immortalato (seppure con autoironia) nel titolo del sequel del film Febbre da cavallo, firmato nel 2002 da Carlo Vanzina. E che i frequentatori della zona Tiburtina di Roma possono ammirare in bella mostra nell’insegna di una trattoria proprio di fronte agli stabilimenti televisivi e cinematografici “Studios”. Proprietari e menu rigorosamente coerenti col nome del locale.

 

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