LA PAROLA

Manicomio

Lo dice la parola stessa: dal greco μανία, follia, e κομίον, ospedale, il manicomio è l’ospedale dei matti. O forse bisognerebbe dire: era. Non perché le malattie mentali siano scomparse, purtroppo, ma perché – almeno in Italia – non esistono più quelle che una volta erano vere e proprie prigioni per malati di mente e che in seguito vennero chiamate, in maniera più edulcorata, ospedali psichiatrici o case di cura per la salute mentale.

E dire che il manicomio nacque, nel 1793 per volere del medico francese Philippe Pinel, proprio per curare i malati di mente che fino ad allora venivano messi in carcere insieme ai delinquenti, pur non avendo commesso alcun reato. Ma per molto tempo i “matti” continuarono a essere considerati come persone da internare, da tenere recluse anche per tutta la vita e non da riabilitare e da cercare di reinserire nel contesto sociale. Bisognerà arrivare alla metà del Novecento per giungere all’abolizione dei manicomi in molti paesi. In Italia soltanto nel 1978, grazie alla battaglia dello psichiatra Franco Basaglia, si arriverà alla soppressione delle vecchie strutture e all’affermazione di una nuova visione per la cura dei disturbi mentali (legge 180).

Al 1886 risale l’apertura, a Montelupo Fiorentino, del primo manicomio criminale italiano, un tipo di struttura in cui venivano rinchiusi rei con malattie psichiche. Negli stessi anni sorsero analoghe strutture ad Aversa e a Reggio Emilia. Chiamati successivamente Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, queste strutture per detenuti giudicati incapaci di intendere e di volere sono state abolite solamente nel 2013 e chiuse nel 2015.

Tra qualche decennio, forse, per le nuove generazioni la parola manicomio suonerà desueta, difficile da associare a una struttura precisa, un po’ come accade oggi per le parole lazzaretto e sanatorio, dopo la quasi scomparsa di malattie come il vaiolo e la tubercolosi. Per non dimenticare che cosa è stata questa istituzione dal Settecento alla sua chiusura nel 1978 è sorto anche un Museo del Manicomio sull’isola di San Servolo a Venezia, dov’era ospitata una delle prime strutture per malati psichici chiamata comunemente I tetti rossi da cui il romanzo di Corrado Tumiati. Il nome del museo, “La follia reclusa”, vuole evidenziare proprio la dimensione oppressiva e carceraria dell’istituzione.

La parola manicomio, cancellata dal linguaggio politicamente corretto, è rimasta in uso quasi soltanto in senso figurato. Per dire che una situazione è caotica e confusa si dice che «è un gran manicomio»; per manifestare esasperazione e rischio di perdita del controllo si dice che «si finirà al manicomio»; «una cosa da manicomio» è qualcosa di incredibile, che rasenta la follia. In alcune città ci sono luoghi diventati per antonomasia «posti da matti». A Bologna, per esempio, si dice «andare al 90» per significare «essere da manicomio», in quanto l’antico edificio al numero 90 di via Sant’Isaia ospitava fino a qualche decennio fa l’ospedale psichiatrico cittadino.

Molti artisti con disturbi psichici, anche lievi, sono stati internati nei manicomi e di quei luoghi hanno narrato nelle loro opere: da Torquato Tasso ad Antonin Artaud, da Strindberg a Van Gogh, da Dino Campana ad Alda Merini. Il filosofo Karl Jaspers nel suo Genio e follia spiega come in alcuni autori la mente dell’artista e la sua opera siano saldati in un rapporto inscindibile.

Nella narrativa il manicomio è un’ambientazione che ricorre fin da quando ne furono aperti i primi, dove venivano rinchiusi insieme ai veri malati di mente anche persone appartenenti all’ampia fascia grigia costituita da diseredati, accattoni, senza dimora, asociali. Oppure persone che creavano per qualche motivo – caratteriale, fisico o sessuale – imbarazzo alle famiglie, come avviene nel romanzo di Wilkie Collins del 1859 La donna in bianco. In Italia, negli anni Settanta, le storie narrate da uno psichiatra a sua volta “recluso” in un manicomio, Mario Tobino, diventano letteratura in Per le antiche scale e Le libere donne di Magliano. La contagiosità del disturbo mentale anche tra persone sane a causa della convivenza in strutture psichiatriche chiuse e dell’isolamento sociale appare evidente nel fortunato romanzo di Patrick McGrath Follia, il cui titolo originale – non a caso – è Asylum, manicomio in inglese.

Lo stesso accade nel cinema. In Il corridoio della paura di Samuel Fuller un giornalista si finge pazzo per essere ricoverato in un manicomio e condurre un’inchiesta, ma l’ambiente è talmente alienante che finisce con il perdere davvero la ragione. In La fossa dei serpenti di Anatole Litvak si racconta l’odissea di una donna che si ritrova, senza avere cognizione di sé, rinchiusa in manicomio, un luogo che viene associato per brutalità alla fossa piena di serpi dove nell’antichità venivano gettati i folli nella convinzione che un luogo in cui sarebbe impazzito un sano avrebbe potuto risanare un malato. Ma certo il capostipite di tutti i manicomi cinematografici resta Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman, dal romanzo di Ken Kesey, in cui grazie all’interpretazione di Jack Nickolson si pone in evidenza come la ribellione a un regime che punisce e avvilisce anziché curare porti, attraverso mezzi come la lobotomia, all’annullamento totale dell’individuo.

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