Eccola lì l’ultima moda del web, una delle tante che ogni volta induce a invocare l’asteroide misericordioso che metta fine alle sofferenze dell’umanità e del pianeta. Si chiama FaceAppChallenge e ha rilanciato una “vecchia” app per Android e iOS, FaceApp, uscita fuori, a gennaio del 2017, dal cilindro della Wireless Lab, la società russa fondata da Yaroslav Goncharov.
L’applicazione utilizza l’intelligenza artificiale per elaborare le foto e applicare particolari filtri al volto, tra i quali quello dell’invecchiamento. La novità è che da alcune settimane è diventata anche una sfida virale, una challange, appunto che al “grido”, anzi all’hashtag #FaceAppChallenge, sta facendo impazzire il popolo dei social, dai politici, alle star dello spettacolo e della musica, agli sportivi, ai vip in genere fino ai comuni mortali. Ad oggi, è stata scaricata da 80 milioni di utenti.
Un po’ come è accaduto qualche mese fa con l’altra sfida, di cui TESSERE ha raccontato qui genesi e ascesa, Ten Years Challenge, che in quel caso consisteva nel pubblicare una propria foto di 10 anni prima, affiancata a una attuale e accompagnata dall’immancabile hashtag (#tenyearschallenge). Il risultato è stato, allora, una serie di foto “a doppio”, in cui la più recente era stata passata a photoshop per dimostrare di essere invecchiati bene.
Ma come funziona FaceApp? Semplice: si scatta un selfie, poi si seleziona “età” e “anziano” dal menù e il gioco è fatto. Fin qui niente di che. Magari la semplice curiosità di vedersi da vecchi. Il passo successivo, se proprio si vuole seguire la moda, è pubblicare l’elaborato sui social, mettere l’hashtag e finire così nel mare magnum di miliardi di foto che – e qui cominciano a sorgere i problemi – contengono elementi personali, riconoscibili, misurabili e unici che vanno a finire negli archivi della società proprietaria del giochino e in quelli dei social. Un rischio che si corre ogni volta che postiamo una foto con le caratteristiche del volto bene evidenti, ma che in questi casi diventa più pericolosa perché gli elementi misurabili vengono, per così dire, “processati” dal sistema come in un una sorta di ricostruzione facciale alla CSI. Solo che non sono le facce dei “cattivi” ad essere ricostruite per affidarli alla giustizia, ma le nostre, che vengono archiviate nelle banche dati mondiali per scopi (speriamo solo) commerciali.
Su questo aspetto, in Italia, è intervenuto anche il Codacons che ha segnalato l’applicazione al Garante per la Privacy per fare luce su alcuni aspetti legati al trattamento dei dati personali. Secondo l’associazione sorgono seri dubbi sul loro utilizzo e sul rispetto della riservatezza degli utenti, poiché la policy sul trattamento dei dati non rispetta il Gdpr, l’ultimo atto (europeo) del complesso sistema di leggi per la protezione della privacy. Scrive il Codacons: «la società ci chiede di autorizzare a “condividere i contenuti e le informazioni degli utenti con le aziende che fanno parte del gruppo di FaceApp”: praticamente il rischio è di regalare a questa azienda milioni di dati personali – come le nostre impronte digitali e le immagini per il riconoscimento facciale, tramite i quali veniamo identificati e che, con le più moderne tecnologie, possono essere usati anche per disporre pagamenti – e che potrebbero magari essere immessi sul mercato o utilizzati per fini commerciali». Da qui l’invito alla cautela e la decisione di presentare un esposto al Garante affinché apra una indagine su questa vicenda che mette a rischio la sicurezza di milioni di cittadini italiani.
E ci sarebbe anche un un’aggravante, fa notare questa volta “Altroconsumo“: FaceApp può accedere anche ai file multimediali di WhatsApp e raccogliere dati aggirando l’obbligo di avere scaricato l’applicazione. Così come viene dato per scontato il consenso per la geolocalizzazione. Tra l’altro, si legge nella policy di FaceApp, che «questi affiliati (le società terze cui potrebbero essere ceduti i dati, ndr) rispetteranno le scelte che fai su chi può vedere le tue foto», informazione che però l’app non richiede durante l’uso.
Insomma, il grande fratello ci spia e siamo noi che lo autorizziamo, anzi glielo chiediamo. La fantasia filmica di The Net o Nemico pubblico, le fosche previsioni di Orwell e Bradbury impallidiscono di fronte a questi sistemi subdoli che vengono spacciati come un gioco: quello di divertirsi a sembrare più vecchi senza lasciare un minimo spazio all’immaginazione.
Già…più vecchi. Invecchiare – e farlo in buona salute – è un privilegio. In tempi di ageismo, in cui le persone anziane, che un tempo erano gli over65 mentre ora la lancetta va spostata più avanti, sono oggetto di discriminazione, scacciare i fantasmi della vecchiaia giocando a sembrare più vecchi, è quasi offensivo per chi a invecchiare non ci arriva.