LA PAROLA

Muto

Riferisce il Vocabolario Treccani: «muto agg. [lat. mūtus, voce derivata da una radice onomatopeica mu che, come il gr. μῦ-, riproduceva la formazione di suoni inarticolati prodotti a bocca chiusa]. – 1. a. Di persona che non può fare uso della parola, perché affetta da mutismo; per la sua genericità, non è voce usata nel linguaggio scient., in cui si adoperano i termini relativi al tipo di disturbo specifico, quali mutacico, sordomuto, anartrico, afasico. Spesso con funzione di s. m. (f. –a): un muto, una muta; il linguaggio dei muti. Per estens., anche di animali che non hanno voce articolata: essere m. come un pesce, scherz., di persona che si astiene dal parlare[…]. b. Con tono enfatico, di persona che tace occasionalmente, che resta senza parola, per commozione, forte sentimento, ecc.: restò m. a lungo; […]».

Ma ecco si potrebbe anche dire: muto: noi intendiamo comunemente questa parola, anzi voi la intendete, come menomazione, handicap, malattia nel nostro-vostro “continente”, che si trova di qua dallo Stretto. Ma io vi voglio dire di quel motto che mi porto addosso dagli anni della scuola media inferiore “Giuseppe Mazzini” di via del Celso nel cuore di Palermo che recava e reca ancora segni delle bombe Alleate: così le chiamavano, e mi abituai sin da ragazzo ad abitare dentro a ossimori fisicamente reali, soli neri, luci oscure, come Borges esemplificava quelle figure retoriche, paragonando il linguaggio alla palermitana all’opera degli alchimisti, scrivendone da Palermo, quartiere di Buenos Aires.

Nella Palermo, capitale siciliana, dell’immediato dopoguerra, un compagno di banco di origini popolari che fu in quegli anni anche il figurante nella battaglia garibaldina di ponte Ammiraglio girata sui luoghi della storia da Luchino Visconti, mi sussurrò una frase che mi spiega il vero e positivo significato del mutismo nella mia città natale e mi ispira in qualche modo ancor oggi che ne sono lontano.

«La meglio parola – dicevano e tuttora ripetono a Palermo – è quella che non si dice».

Domanda. Si dà forse luogo con questo elogio del silenzio a un’equivoca e ammiccante interpretazione-riduzione: il mutismo come “valore” omertoso? Voleva quel compagno di scuola suggerirmi la folcloristica esaltazione di un principio cruciale della cultura mafiosa?

Me lo sono chiesto in questi anni, e alla fine rispondo negativamente: tutt’altro significato si deve dare a quella frase, con la quale si vuol invece dire che è assai più decoroso e prudente non abbandonarsi alla fluente parlantina dei retori, agli espedienti dialettici degli imbonitori. Mentre si deve rispondere con il silenzio a chi voglia attirarci in un tranello, meglio stare zitto, chiuderti a riccio… muto.

E le ciliegie della sapienza popolare scorrono come in una sequenza: «Mutu a cu sapi u jocu», si dice in Sicilia, e la traduzione per voi del “continente”, è pressappoco la seguente: a chi conosce il gioco, a chi ha sventato i meccanismi della trappola, è consigliabile stare in silenzio. Insegnamento al quale mi adeguo.

Sto scrivendo questa nota davanti allo schermo invaso dalle chiacchiere di un talk show, detto anche nel gergo televisivo “trasmissione di approfondimento”. Spengo l’audio e quell’accento petulante del centro Italia svanisce nel silenzio della mia cucina: per resistere, resistere, resistere «la meglio difesa» è l’interruttore, «a megghiu palora è chidda ca un si rici…».

Ma in extremis sorge anche un dubbio: si trattasse forse, al contrario, di rassegnazione e – in fondo – di una resa? Silenzio

 

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