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Ordine dei giornalisti addio? Ci provano da 70 anni

Osservo con tenerezza e precoce nostalgia la mia tessera dell’Ordine dei giornalisti, come si accarezzano le amate reliquie del buon tempo antico. Un elegante libretto di cuoio scuro stampato a caratteri dorati, una firma che non riconosco più insieme a una data preistorica. In prima pagina la sbiadita foto a colori, che fu scattata – se ricordo bene – in un raffazzonato studio fotografico di Kigali, Ruanda.

«Adieu, adieu, remember me!»: insieme a tanti altri idola tribus, il governo del cambiamento farà rotolare anche questa testa del trapassato regime. Mi spiace, devo dirlo? Eppure, anche io – nella mia piccola ridotta professionale – non ho mai amato l’Ordine e, in anni lontani, insieme a tanti colleghi ho anche combattuto per abolirlo. Per noi, giovani cronisti di strada, era perlomeno inutile, se non dannosa, questa “consorteria” istituita in pieno fascismo, poi confermata dalla Repubblica, infine riformata e certificata all’inizio dei favolosi anni Sessanta.

Eppure, eppure. La nostra antica scuderia condivide la sorte di altre ben più potenti e minacciose “fratellanze”. L’Italia è una Repubblica fondata su “ordini” immutabili ed eterni: i notai, i ragionieri, i farmacisti, i geometri, i geologi, i climatologi, gli psicologi, gli ornitologi. Così, anche la storia del nostro glorioso Ordine coincide con la storia vanagloriosa e vaniloquente, neghittosa e inconcludente del nostro sfortunato Paese. Tutti i potenti, in epoche diverse, si sono detti pronti ad abolire l’odioso balzello, e tutti – da destra, da sinistra e dal centro – hanno miseramente fallito. O più semplicemente: al momento giusto se ne sono dimenticati.

 

Il bombardamento cominciò con Luigi Einaudi, non ancora presidente della Repubblica («l’Ordine dei giornalisti? idea da pedanti e falsi professori»), e proseguì con La Malfa, Pannella, Craxi, D’Alema. Per finire, ai tempi nostri, con Berlusconi e Renzi. Anche noi giornalisti – sì anche noi – abbiamo pagato il nostro obolo alla causa della contestazione dell’Ordine, mentre ogni gennaio ci rassegnavamo a incollare il tagliandino della quota annuale. I politici, poi: ogni due per tre, si scopriva che i più arrabbiati contro la casta avevano in tasca l’ odiata tesserina di cuoio scuro. Tutti giornalisti, todos caballeros.

Siamo in Italia, e dunque, mai dire mai. Ma tutto lascia presagire che oggi siamo finalmente arrivati alla resa dei conti. In un’epoca nuova e fantastica in cui detta legge orgogliosa la moltitudine dei “laureati all’università della strada”, c’è forse bisogno dell’Ordine dei giornalisti? Anzi: c’è forse bisogno dei giornalisti? Del resto, lo diceva anche Luigi Einaudi buonanima (e oggi forse si morderebbe la lingua): «i giornalisti sono tutti coloro che hanno qualcosa da dire». E poi, cosa volete che sia l’abolizione di un consesso di parrucconi per un governo che con decreto si accinge ad abolire nientemeno che la povertà?

Capisco che nel “nuovo mondo” non è più tempo di esami, di duro lavoro, di apprendimento, di aggiornamento professionale. Ma io sono un “antichista”, e ai commentatori di Fb, ai leoni da tastiera, ai confezionatori di fake news continuo a preferire Enzo Biagi, Andrea Barbato, Giorgio Bocca, Vittorio Zucconi, Tiziano Terzani e decine di degni colleghi che non voglio ricordare. Continuo a preferire una scuola sui “banchi” delle redazioni coronata da un esame impegnativo, e infine un giudizio di liberi esperti. E solo allora la strada, l’indagine, l’empatia con le storie e con gli esseri umani.

Dunque, cari colleghi degli uffici dell’Ordine, cari dirigenti, cari impiegati, cari bollinatori: vi scioglieranno nell’acido, e lo faranno – oh se lo faranno! – per vendetta e non per ragionamento. E se non siete già in pensione, dovrete trovarvi un altro lavoro. E vi sta bene, perché per cinquanta anni avete difeso una trincea di retroguardia, avete accolto nelle vostre file personaggi discutibili e a volte indegni, avete tenuto fuori dalle mura giovani meritevoli, siete stati padri e patrigni, avete difeso piccoli e piccolissimi privilegi. Ma il vostro tramonto è sommamente ingiusto: perché c’è una bella differenza tra essere mandati a casa da Luigi Einaudi ed essere cacciati su due piedi da Rocco Casalino.

Per quanto mi riguarda, conserverò la mia antica tessera in un cassetto, tra le «buone cose di pessimo gusto» della mia amata professione. Del vecchio Ordine resterà l’ammonimento della legge che lo istituì, laddove mi richiama al «rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservando sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede».