LA PAROLA

Sarchiapone

Nelle torride giornate estive, ai turisti ed ai viandanti, obnubilati dal gran caldo e dalla notevole botta emotiva che la bellezza ed il caos di Napoli producono in egual misura in coloro che si avventurano alla sua scoperta, potrebbe capitare di sentirsi offrire da un sollecito barista un sarchiapone. «Bello fresco fresco, Dottò…». Niente paura, nulla di trasgressivo, né di illecito: si tratta di un bel bicchierone di acqua fredda con succo di limone e gialla scorzetta di ordinanza, che già a guardarlo infonde sollievo, proprio come le pozze d’acqua che appaiono quali miraggi ai viaggiatori smarriti nei deserti. Può essere servito anche nella versione acqua e granita di limone, ma i puristi, come mi conferma il mio barista di fiducia, storcono il naso. Acqua e limone dunque per gli aficionados del sarchiapone classico.

Modico prezzo per il Sarchiapone classico in un bar a Por,ta Capuana. Dalla mia foto è nato il pezzo, l’idea sarchiaponesca.

Per chi ha ricordi della tv in bianco e nero, il sarchiapone è legato alla rievocazione del misterioso animale di cui Walter Chiari, protagonista dell’omonimo celebre sketch televisivo degli anni ’60, sembrava sapere tutto, ma che, in realtà, era inesistente. Detto animale veniva infatti descritto da Carlo Campanini come un pericoloso monstrum, chiuso in una gabbia coperta da un telo, ma il racconto delle truci caratteristiche della bestia era soltanto un espediente per far migrare altrove i passeggeri che affollavano lo scompartimento, per poi viaggiare in assoluta tranquillità.

Si narra che Walter Chiari si trovasse sulla spiaggia di Fregene, quando vide un venditore ambulante napoletano che offriva quei fischietti chiamati “lingua di suocera”, attirando i bagnanti al grido di: «Venite, compratevi il Sarchiapone napoletano!». Gli acquirenti, per lo più bambini, dicevano l’un l’altro, vantandosi, «Sai che io ho il Sarchiapone americano?» «Eh… sapessi… ce l’ho anch’io, a casa», «E com’è?». L’attore, ispirato da questo dialogo surreale, tornò a casa e buttò giù il canovaccio dello sketch.

Questo immaginifico vocabolo della lingua napoletana è seicentesco, viene infatti citato per la prima volta in un racconto di Giambattista Basile, interprete dell’immaginario popolare con il suo novelliere Lu Cunto de li cunti. Tra i suoi personaggi,  c’è Peruonto, giovane disgraziato, definito «lo chiù granne sarchiopio e lo chiù sollenne sarchiapone c’avesse creiato la natura». Dopo aver conosciuto «vita grama, dileggio e grave pericolo», come in tutte le fiabe che si rispettino, avverrà il lieto fine ed il giovane sarchiapone vivrà felice e contento, grazie alla fatagione, il dono delle fate: la possibilità di ribaltare a suo favore un destino sfavorevole già scritto.

Successivamente, il lemma compare come nome di uno dei personaggi principali della Cantata dei Pastori, opera teatrale scritta da Andrea Perrucci nel 1698, nata come sacra rappresentazione e poi divenuta patrimonio popolare, con tutte le aggiunte esilaranti e dissacratorie dei teatranti che l’hanno fatta giungere fino a noi. La versione più bella e conosciuta della Cantata è il riadattamento del maestro Roberto De Simone, magistralmente interpretato da Peppe Barra, che veste i panni di Razzullo.

Usato come nome proprio, è presente anche in una poesia del principe Antonio De Curtis, in arte Totò; eccellente metafora dell’ingratitudine degli uomini e della terribilità della vecchiaia, che troviamo nella raccolta A Livella, con il titolo “Sarchiapone e Ludovico“. È la triste storia di Sarchiapone, un cavallo purosangue. Divenuto vecchio e non più adatto per tirare il calesse, viene acquistato per poche monete da un carrettiere; il suo unico amico è un asino, col quale condivide la stalla. L’asino Ludovico, durante un dialogo, gli fa balenare dinanzi agli occhi la sua nuova condizione di reietto. Sarchiapone è il cuore, l’emotività, il sentimento; Ludovico è la ragione, lo svelamento del reale, il disincanto. Così, il cavallo, giunto all’amara consapevolezza di esser stato sostituito dal suo padroncino con un giovane puledro, si getta in un burrone, lasciando questa valle di lacrime e giungendo finalmente a quel che si auspica sia un mondo migliore, «’o munno ‘a verità», l’altrove, il regno della verità.

“E camminanno a ttaglio e ‘nu burrone,
nchiurette ll’uocchie e se menaie abbascio.
Vulette ‘nzerrà ‘o libbro Sarchiapone,
e se ne jette a ‘o munno ‘a verità”.

Tornando all’aggettivo sarchiapone, che se usato nei confronti dei ragazzi si trasforma nell’affettuoso diminutivo “sarchiapunciello”, viene spesso accomunato al fratacchione astuto e approfittatore che risponde al nome di Fra Jacopone, di cui Sarchiapone sarebbe appunto una corruzione, il quale appare in talune opere del commediografo settecentesco Pietro Trinchera. Origini letterarie nobili ha dunque questa parola, anche se l’accezione sarchiaponesca è passata comunemente a designare un uomo tutt’altro che nobile d’aspetto e di modi: un sempliciotto, grasso, grosso e tozzo.

Erano sarchiaponi i cavalli arabi grassi e bassi, che trainavano le carrozze nel bel tempo che fu. Dunque, si tratta di un individuo fatto di sola carne, grossolano ed anche un po’ tonto. L’etimologia greca, da sarx (carne) e poiòs (faccio, produco) ci dice che questi non serba in sé la scintilla dello spirito.

Dunque, abbiamo scoperto che il sarchiapone ha tanti volti: può essere un appellativo irridente: «Uè, sarchiapò…», una bevanda rinfrescante, un cavallo, un pezzo di storia della RAI dei tempi d’oro, un personaggio del teatro, un animale poetico. Una volta, poi, in una discussione filosofica, tra compagni di studi, la scrivente definì il noumeno come il «sarchiapone di Kant», ma questa è un’altra storia…

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