ATTUALITÀ DIALOGARE IN PACE SOLIDARIETÀ

Siamo tutti sulla stessa… piazza

Nello strano cocktail imposto dal diluvio di notizie di questi tempi, si fatica a trovare una traccia, un sentiero che valga la pena seguire.

Poi all’attempato scriba capita di inoltrarsi, per un vecchio riflesso condizionato, con altri amici lungo i sentieri della manifestazione di Milano per i diritti. Dapprima spinto e poi, con il passare delle ore, con sempre maggiore entusiasmo. E scoprire l’acqua calda ovvero che ogni piazza, ogni strada ha un linguaggio proprio, specifico.

 

Non è solo la grande folla che incrocio, come non mi capitava da decenni. È che avverto la diffusa gioia di esserci e mi pare di cogliere qualcosa che non sentivo più da tempo.

«Siamo tutti sulla stessa barca», «People. Prima le persone», «Siamo dello stesso sangue, fratello, tu e io», «Siamo tutti meticci», «Siamo tutti uguali», «Sui diritti non si torna indietro», «Proteggere le persone, non i confini», «Il mondo che vogliamo è una storia a colori», «No al razzismo», «Io emigro, loro emigrano, noi emigrammo»: frasi tanto semplici quanto chiare, dirette, che si lasciano ascoltare, che non esplodono in vie e piazze come vecchi rancori sopiti e che fanno eruttare il vulcano del malessere.

 

Ho ascoltato con un piacere ritrovato.

 

Intorno ho rivisto volti che hanno per me antiche sembianze, non li riconosco perché li conosco personalmente, piuttosto perché nelle vie e nelle piazze quei volti non si mascherano, come le sessantottine e i sessantottini con quei capelli grigi al vento e quell’irriducibile modo di vestire che tanto li accomuna e che altrettanto li identifica; o come quei signori che, come il sottoscritto, muovono appena le labbra per il maldestro pudore che impedisce loro di lasciarsi andare, anche solo per uno dei tanti balli ritmati poi in piazza del Duomo; o, ancora, le migliaia di giovani che ballano, cantano, trascinati dal collante della loro giovinezza, mai l’una simile all’altra.

 

Una piazza senza conduttori che non sia la gioia di stare insieme, che prova ad unirsi senza covare la rabbia di dividersi.

 

Perché, mi chiedo, provo tanto stupore?

 

Perché sono un giornalista che non ne azzecca una, che non sa più né ha la voglia di vedere e capire i ribaltamenti senza precedenti dei valori nella società in continuo movimento. Ma non tutto va per forza nella stessa direzione del grande fiume d’oggi: le maggioranze silenziose senza leader, che non manifestano, che non vanno per le strade, che hanno da tempo smarrita la bussola sociale e nel chiuso delle loro case covano rancori, che non hanno pretesa di coerenza, che sfogano il loro risentimento qui e ora, avendo perso la dimensione dell’io collettivo e della rappresentanza. Populisti, si dice, ma più che mai donne e uomini disperatamente soli, perché hanno disimparato ad ascoltare, ovvero a mettere in atto la forma più grande non solo della generosità, ma della grandezza dell’uomo.

 

Persino le tecnologie, con le quali ingaggio ogni giorno una battaglia senza senso e senza tempo, mi sono parse amiche.

In quel corteo anche i cellulari, lasciate che li chiami così, hanno fatto da collante, hanno brillato e gracchiato trasferendo in tempo reale musiche, parole d’ordine, messaggi, che mai avremmo potuto ammirare nell’insieme. Si sono trasformati in sentinelle d’un inedito servizio d’ordine, radunando truppe d’amici sparse. Pare abbiano perso per un istante la loro funzione progettuale, un affare di marketing fatto di peso e capacità di sedurre con mille funzioni e si siano riconquistati il diritto di scambiarsi emozioni.

 

Ho avuto l’impressione di liberarmi, anche solo per un giorno, del carico di narcisismo fasullo che fa da collante al nostro collegamento perenne con il nulla.

 

Lo so, domani, e già lo siamo, è un altro giorno e tornerà a prevalere lo strano miscuglio d’indifferenza e rancore, distillato alla base del populismo dagli effetti devastanti.

 

Ma la giornata sotto le guglie del Duomo di Milano, ci dice che nulla è immutabile. Basta provarci. In fondo è già capitato.