LA PAROLA

Solitudine

Può essere reale e irreale, una condizione o un sentimento, una percezione negativa o positiva. La solitudine è un Giano bifronte che punta lo sguardo sul contingente ma affonda le radici nel profondo di ciascuno. È uno stato effettivo oppure immaginario. Ha a che fare con il singolare, ma anche con il plurale. Si può essere soli per caso oppure per scelta, come nella clausura. Si può essere soli per costrizione: è il caso dell’esilio, del carcere, della prigionia. L’olocausto è la condizione estrema di solitudine collettiva. Scriveva Primo Levi in Se questo è un uomo: «Benché inglobati e trascinati senza reliquie dalla folla innumerevole dei loro consimili essi soffrono e si trascinano in una opaca e intima solitudine, e in solitudine muoiono e scompaiono, senza lasciar traccia nella memoria di nessuno».
Tra le molte azioni che svolgiamo, necessariamente, in solitudine la lettura è quella che non fa mai sentire soli perché ci porta a vivere altre vite, a identificarci in alcuni personaggi e quindi a interagire con altri. La solitudine è spesso uno stato d’animo più che una condizione assoluta. Si può essere soli in mezzo a una folla, faccia a faccia con un compagno con cui non c’è più empatia, circondati da sconosciuti ma anche da volti noti. Il personaggio di Robert De Niro nel film di Martin Scorsese Taxi Driver racconta bene questo sentimento: «La solitudine m’ha perseguitato per tutta la vita. Dappertutto: nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, dappertutto. Non c’è scampo: sono nato per essere solo». Viceversa, la fantasia può rendere molto affollate anche situazioni in cui si è effettivamente in solitudine.
La condizione di chi è solo viene dal latino solum, che contiene la radice indoeuropea se- indicante separazione. La solitudine, quindi, non viene identificata in ciò che è, ma in ciò che non è: un’assenza, una mancanza. Insomma, una condizione non positiva. «Nasciamo soli e moriamo soli – diceva Orson Welles – Solo attraverso i nostri amo:ri e l’amicizia si può creare l’illusione, per un momento, di non essere soli». Lo dice anche il personaggio interpretato da William Hurt in Il grande freddo di Lawrence Kasdan durante la rimpatriata tra vecchi amici: «Siamo tutti soli, là fuori, e domani ci ritroveremo là fuori di nuovo».
Eppure, in una concezione solipsistica della vita, si ritiene che convenga sempre far da soli, perché chi fa per sé fa per tre, e così via. Sembra invece essere nato in funzione consolatoria, per i single loro malgrado, il detto “meglio soli che male accompagnati”.
Un’espressione particolarmente triste è “trascorrere la vecchiaia in solitudine”. Ma, a ben vedere, il problema vero è la vecchiaia e non la solitudine; basta sostituire la parola vecchiaia con giovinezza per vedere che l’effetto cambia completamente.
Vi sono luoghi che si confanno particolarmente alla solitudine: le cime dei monti, i deserti, il mare aperto. C’è chi ama compiere imprese sportive in solitaria, rimanendo solo anche per mesi in mezzo all’oceano, tra i ghiacci o scalando montagne. Per farlo occorre un carattere particolare, la capacità di cavarsela sempre da soli, l’essere immune alla nostalgia e all’assenza.
Spesso si associa la condizione di solitudine alla figura dell’artista, dell’inventore, dello scienziato, del vate, del poeta. Basti pensare a Petrarca, in cui essa è desiderata e ricercata come spazio in cui ritrovare la propria interiorità («Solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti;/ e gli occhi porto, per fuggir, intenti / dove vestigio uman l’arena stampi»); a Leopardi, in cui diventa cosmica, con il suo “Passero solitario” e il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”; a Pascoli in cui coincide spesso con l’abbandono («come l’aratro in mezzo alla maggese»). Nella poesia del Novecento la solitudine è un tema ricorrente, da Montale a Ungaretti, a Quasimodo che la sintetizza nei tre celebri versi: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera».
Quando, nel 1954, ricevette il Premio Nobel per la Letteratura, Ernest Hemingway decise di non andare a Stoccolma e di rimanere nel proprio isolamento. Mandò una lettera, in cui diceva tra l’altro: «La vita dello scrittore è, nel migliore dei casi, una vita solitaria. Le organizzazioni di scrittori alleviano la sua solitudine, ma dubito che riescano a migliorarne la scrittura. Più diventa conosciuto al pubblico, più perde la sua solitudine, e così, spesso, il suo lavoro ne risente, deteriorandosi. Lui lavora da solo, e se è uno scrittore abbastanza bravo deve essere in grado di affrontare l’eternità, o la sua mancanza, ogni giorno».
Uno dei romanzi più conosciuti nel mondo è Cent’anni di solitudine di Gabriel García Marquez. Qui la solitudine è nell’isolamento dell’immaginaria città di Macondo e della famiglia Buendía che l’ha fondata, ma è anche la solitudine dovuta alla circolarità del tempo in cui i vivi convivono con i morti e gli eventi si ripetono inesorabilmente, così come i nomi dei personaggi. Ed è la soledad di tutti i personaggi della storia, di un mondo destinato ad estinguersi perché incapace di aprirsi a ciò che è al di fuori e destinato all’oblio eterno «perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra».
Ma l’uomo non è l’animale sociale per definizione, come sostengono i filosofi da Aristotele in poi? «Nessun uomo è un’Isola/intero in se stesso./Ogni uomo è un pezzo del Continente,/una parte della Terra…», recita la celebre poesia di John Donne. E qui ritorna la solitudine di Hemingway, a cui ci rimandano i due versi finali sulla morte: «E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:/Essa suona per te».

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