LA PAROLA

Taggare

Al pari di parole come bannare, linkare, chattare, zippare e affini, tutte derivate dal gergo dell’informatica, la parola taggare è entrata nel lessico italiano relativamente da poco. In particolare da quando i social sono diventati il pane quotidiano della vita di giovani e meno giovani, di tutte le razze, in tutto il mondo. Il lemma è stato introdotto come italianizzazione del verbo inglese to tag, che significa etichettare, apporre un elemento di riconoscimento, appunto un’etichetta.

Ormai è entrato di diritto nei principali dizionari della lingua italiana, tra cui anche il vocabolario Treccani che, tuttavia, ne dà ancora una definizione non legata solo alla rete dei social, ma risalente all’origine del verbo: «in informatica, marcare gli elementi di un file. Nel gergo dei writers, firmare un graffito con la propria sigla».

Prima dell’avvento di Facebook, Twitter e affini, infatti, il significato di taggare era legato all’arte dei graffiti, dove il tag è la firma del graffitista che accompagna l’opera.

Tecnicamente, taggare è l’azione di associare il profilo di una persona presente su quel determinato social, a una foto, a un video, a un post, anteponendo – al nome della persona che si vuole menzionare il simbolo “@” – in inglese at, “presso”, in italiano chiocciola, derivandola dalla sua forma a guscio. L’operazione successiva, cliccare cioè sul post in corrispondenza del tag, consente di collegarsi al profilo di chi è stato menzionato.

Prima dei social, in una normale conversazione in piazza, il corrispondente del tag sarebbe stato indicare qualcuno, come per dire, nel caso di un luogo, “c’era anche lui/lei”, nel caso di una canzone o di un film “piace anche a lui/lei”. Insomma un’associazione tra persone, che sostituisce il gesto di indicare con una fredda stringa informatica. Su Facebook, per fare ancora un esempio di come i social finiranno per sostituire anche i gesti, c’è il meno usato poke, una sorta di toc-toc sulla spalla, a dire “ci sono anche se non mi consideri”.

Della sua variante in combinazione con il simbolo # si è già riferito con la parola Hashtag.

Dal momento che si possono etichettare o taggare pagine di siti, link, articoli, blog, attraverso parole chiave che aiutano a indicizzare gli argomenti e a renderli più visibili nei motori di ricerca, il tag sta diventando un insostituibile strumento di pubblicità: aumenta la possibilità di essere letti, visti, seguiti, conosciuti. Facile immaginare la portata in politica e nel marketing per “presentare” la persona o il prodotto direttamente al destinatario attraverso un tag. Oppure inserire all’interno del contenuto tag-parole chiave che permettono alla pagina di essere trovata e letta.

Chiunque abbia utilizzato un blog sa bene quanto una attenta categorizzazione degli articoli favorisca la diffusione, dato che si può arrivare a quel preciso testo on line navigando sulla scia dei motori di ricerca.

Insomma, come molte delle novità messe a disposizione dall’informatica, dalla rete e dai social, anche il tag e il taggare sono uno strumento di enorme potenzialità, nel bene e nel male. Se da una parte sono un limite alla privacy (è il caso dei social), dall’altra sono un facilitatore per la ricerca di notizie e informazioni. Ma non li sopravvalutiamo altrimenti si rischia qualche comica castroneria, come è successo all’ex premier in occasione del Digital Day, a Torino nel 2015. Parlando di sicurezza globale e della necessità di una banca dati comune per fronteggiare il terrorismo, se ne uscì con la «tagghiamo i potenziali soggetti pericolosi». In questo caso, sarebbe stato meglio usare il verbo etichettare.

P.S. Il correttore automatico del programma di impaginazione di questo articolo ha suggerito, al posto del verbo in questione, “targare”. Mica scemo!

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