LA PAROLA

Oste

La figura dell’oste, nella storia della cultura gastronomica, occupa di diritto un posto non di poco conto, razza antica e talvolta malfamata. Immagine che riemerge addirittura dai nostri ricordi infantili,  basti pensare alle disavventure di Pinocchio all’Osteria del Gambero Rosso.

Per l’oste sono tutti galantuomini purché paghino,  fare i conti senza l’oste:   sono modi di dire per sottolineare come nella tradizione chi gestisce un’osteria è spesso inteso come persona disposta a fare i propri interessi a scapito di quelli degli avventori.

Nelle illustrazioni del passato, l’oste ha spesso le sembianze di un uomo corpulento, con un grembiulone lungo fino a i piedi,  rimboccato intorno alla vita, e pieno di patacche, con mani robuste appoggiate sul tavolo, mentre prende le ordinazioni dagli avventori. Di solito portava anche una berretta, che poteva variare secondo le mansioni e le mode: da cuoco, ma floscia, oppure a visiera come uno dei tanti clienti delle vecchie taverne.

Le osterie potevano essere locali molto apprezzati, dove in cucina il cuoco era vestito tradizionalmente di tela bianca, ma anche bettole poco raccomandabili dove il padrone era della stessa risma di coloro cui riempiva ripetutamente il boccale .

Su questo personaggio, fuori del tempo e dalle mode, abbondano i riferimenti letterari, così come le testimonianze dei viaggiatori, come Goethe che nel suo Viaggio in Italia fece spesso riferimento ai bizzarri personaggi incontrati nelle tante osterie in giro per il Belpaese. Questi cuochi tuttofare, e le loro taverne, divennero agli occhi dei tanti stranieri che percorsero l’Italia nei secoli scorsi l’essenza stessa del costume e del folklore locale.

Anche la cultura popolare ha tramandato un gran numero di rime burlesche e triviali ballate sugli osti, sempre in bilico tra la denigrazione per i loro loschi commerci sottobanco, e un compiacimento per il talento di commerciante sempre dimostrato.

L’osteria, almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento, offriva “servizi” assai diversificati. Poteva infatti essere una mescita di vino, locanda con camere, stalla e ristoro, stazione della posta, oppure tutte queste cose allo stesso tempo.

Normalmente la gestione era familiare, ma in ogni caso erano necessari, a seconda della grandezza dell’esercizio, anche degli altri sguatteri, stallieri e camerieri. Altre volte l’osteria offriva soltanto da bere e da mangiare, e  almeno fino a non troppi anni orsono, era cosa normale che il cliente potesse consumare il cibo che si era portato con sé

 Verso la fine del secolo trattorie e ristoranti si diffusero sempre più in Italia, mettendosi in aperta concorrenza con l’osteria, come locali di ristoro senza alloggio, ma di un livello decisamente superiore nel servizio e nell’offerta dei piatti.

Anche la moglie dell’oste non godeva certo di un’alta reputazione. A Roma, per esempio, dai resoconti dell’epoca, risultano essere «tutte basse e grasse». A colpire l’avventore non era certo l’avvenenza, ma spesso la mole che incuteva un misto di rispetto e simpatia, evocata da una figura vagamente familiare. Nessuna fra le ostesse indossava un vero e proprio indumento professionale, ad esclusione del solito grembiule, che nei locali un po’ più ricercati, poteva avere qualche macchia di meno, ed essere ingentilito da qualche lezioso ricamo.

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