LA PAROLA

Virale

L’etimologia della parola “virale” è da ricercare nel latino, lingua che tanto ha regalato all’italiano che parliamo oggi. I latini chiamavano virus l’umore, inteso come la secrezione (spesso, velenosa) di animali e piante e, dunque, in senso metaforico una malignità, un qualcosa che, al suo passaggio, infetta.

Alla fine dell’Ottocento, venne denominato “virus” un agente infettivo recentemente scoperto, che aveva la particolarità di essere più piccolo  dei batteri, e a differenza di questi, non è un essere vivente. O almeno non del tutto. Infatti, si replica solo grazie agli apparati delle cellule che infetta e, anche per questo, la sua diffusione è rapida e immediata. Basti pensare alle malattie virali, che in breve tempo, sia quelle più gravi sia quelle meno gravi, possono diffondersi tra la popolazione, in modo capillare. Negli ultimi anni la parola “virale” è diventata di uso comune, anche (e soprattutto) con lo sviluppo del web  e dei social network, piattaforme nelle quali la diffusione di video, foto e notizie è estremamente facile e rapida. Proprio come un’infezione.

Ovviamente, non vi è, nei contenuti virali un’accezione esclusivamente negativa. Può essere virale un’azione umanitaria, un articolo di denuncia, un video che racconta la rivolta contro un regime. È diventata virale la piccola Bana Alabed, di soli sette anni, che ha iniziato a raccontare via Twitter gli orrori della guerra in Siria. E la rivista “Time” l’ha inserita nella lista delle venticinque persone più influenti del web. Influente e virale.

Virale è stato, purtroppo, un video circolato un paio di anni fa che riprendeva una ragazza in atteggiamenti intimi con un uomo. La donna non ha retto alla vergogna, alle provocazioni, al giudizio cieco di chi sa solo puntare il dito e si è tolta la vita dopo qualche mese. In questo, il web e il suo popolo (troppo spesso esenti da regole) possono essere carnefici. La viralità infetta e contagia tutto ciò che trova, germogliando semi di speranza o bruciando come un fuoco distruttore. Sta alle persone, sta al libero arbitrio saper discernere e dare un giusto peso alle cose. Sta alle persone salvarsi dall’infezione o, da questa, farsi contagiare per imparare qualcosa di nuovo. Qualcosa di buono.

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