LA PAROLA

Buzzurro

La svolta si ebbe nel 1870 quando la capitale venne trasferita da Torino a Roma e diversi piemontesi scesero nel Lazio, al seguito della corte sabauda. Gran parte di loro aveva conoscenze e praticato studi superiori alla media, ma tutti, senza distinzione, vennero riuniti in una unica definizione che, meno di oggi ma anche allora, suonava offensiva: «Sono arrivati i buzzurri». Addirittura nel 1871 vennero perfino censiti: 6.662 uomini e 34 donne. Dieci anni dopo i buzzurri erano quasi raddoppiati e, a fine Ottocento, avevano raggiunto le 25 mila unità, quasi il dieci per cento della popolazione romana di allora, con punte massime sull’Esquilino e nei quartieri Macao e Prati. Il poeta Giggi Zanazzo, a dimostrazione di quanto poco fossero amati, ci regala una poesia nella quale i buzzurri vengono definiti ciafruijoni, più o meno buoni a nulla. Non meglio dei meridionali considerati cafoni o gli umbri, i marchigiani e i toscani che per i romani erano solo burini.

Nella sostanza il termine buzzurri, nel linguaggio tardo ottocentesco, accomunava la popolazione forestiera richiamata a Roma per il nuovo ruolo della città nell’Italia unificata. Ma così come da lontano tante genti avevano raggiunto il Lazio, anche quell’aggettivo sostantivato era conseguente all’immigrazione. Infatti ad operarlo per primi erano stati i fiorentini i quali, secondo la Treccani, avevano affibbiato questo nome ai «montanari che scendevano dal Cantone dei Grigioni e dal Canton Ticino a vendere caldarroste e dolciumi». Gente considerata grossolana e sufficientemente zotica. Al punto che, se oggi racconti la storia a qualche cittadino svizzero, quasi quasi non la prende bene e respinge sdegnosamente la definizione di buzzurro. Del resto c’è anche da capire i nostri amici elvetici: come possono sentirsi straccioni caldarrostai loro che, educati e spesso anche un po’ spocchiosetti, hanno comprato casa negli stupendi borghi italici stupidamente abbandonati dagli autoctoni?

Già all’inizio del secondo scorso l’uso comune del termine aveva prevalso sulla sua origine. Tanto è che buzzurri non sono ormai né i venditori svizzeri di castagne e neanche i sudditi piemontesi della monarchia sabauda. Tutti i dizionari ci indicano infatti la definizione di «persona rozza, zotica, villana, sgarbata, grossolana» e, chi più ne ha di negative, più ne metta.

L’incertezza permane invece sull’origine del termine. I più qualificati non azzardano etimologie. Altri fanno riferimento al termine tedesco antico butzen, l’attuale Putzer, che letteralmente significa addetto alle pulizie, mestiere che poco si concilierebbe almeno con l’aspetto abbastanza trasandato dei primi buzzurri. A meno che non si accetti la tesi dell’ingegno multiforme dei venditori svizzeri, che pare associassero al commercio dei dolciumi anche una redditizia attività nella pulitura dei camini. Nella quale erano abili soprattutto i migranti dal cantone dei Grigioni dove, insieme all’italiano e al romancio, si parla appunto anche il tedesco.

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