LA PAROLA

Carampana

Qualcuna se ne vede ancora, per le calli di Venezia, anche se carampana – termine un tempo attribuito, in laguna, alle prostitute – ormai è passato a definire quel che il lessico etichetta con un benevolo «vorìa, ma no posso», avrei la pretesa, ma non ce la faccio proprio: presunzione d’avvenenza di chi non si arrende al passare del tempo, e insiste a truccare, coprire, imbellettare le antiche virtù, con risultati per lo più patetici.

Eppure la carampana, nei secoli gloriosi delle Serenissima, aveva tutt’altro significato. La parola deriva dal nome di una famiglia nobile, i Rampani, che avevano palazzo e molte abitazioni di proprietà nella parrocchia di San Cassiano, nei pressi di Rialto. Nel corso del quattordicesimo secolo, alcune case del patrimonio Rampani vennero date in affitto ad un gruppetto di meretrici in fuga dalla loro sede di San Mattio di Rialto, detta il Castelletto. Pecunia non olet, pensarono i Rampani: chissà quali debiti di gioco, quale carico di spezie perduto nelle acque del Pireo furono alla base della decisione.

Dal canto loro, le fanciulle furono liete di trasferirsi – raccontano le cronache – forse per il sovraffollamento della casa madre, o magari per non dipendere in tutto e per tutto dalle parone che gestivano i loro guadagni. Si sa che il Governo tentò, a più riprese, di scacciare le belle da Ca’ Rampani. Ma niente, facevano puntualmente ritorno, fino a stabilirsi definitivamente nell’intrico delle calli intorno al palazzetto e mutarne la toponomastica. Rimase il nome, duplice commistione tra la casada – appunto i Rampani – unito alla parola casa (Ca’), declinato poi al femminile (in questo caso plurale, vista la moltitudine delle cortigiane), secondo l’uso della città: per consuetudine linguistica, a Venezia, il nome della proprietà viene aggiustato secondo quello della località dove insiste (ad esempio, i Morosini in corte Morosina).

Fu così che si chiamò Carampane la zona tra il sestiere di Santa Croce e quello di San Polo. E così si chiamarono – da allora in poi – le prostitute, anche nei documenti ufficiali. Tutto sommato, la vita delle povere carampane era abbastanza meschina, perché la Serenissima emanò, con l’andar del tempo, regole severe riguardanti il loro comportamento quotidiano: potevano sì uscir di casa, ma senza allontanarsi dai ristretti confini del sestiere di lavoro e, alla terza campana della sera, erano costrette a rientrare nei loro alloggi, pena dieci frustate. Non si lavorava nei periodi sacri (Natale, Quaresima e Pasqua), pena quindici frustate; di frequentare le osterie, neppure parlarne. Era loro concesso di recarsi in centro città solo di sabato, indossando un vistoso fazzoletto giallo al collo come segno di riconoscimento; la domenica dovevano barricarsi in casa e non farsi vedere.

L’area assomigliava a quello che oggi potrebbe venir definito un quartiere a luci rosse: per attirare la clientela, le carampane stavano affacciate per ore alla finestra delle abitazioni a petto nudo. Esiste ancora il ponte delle Tette, a testimoniarlo, così come si chiama rio delle Tette il relativo canale. In realtà, pare che il Governo incoraggiasse l’esibizionismo delle carampane come arma per combattere l’omosessualità, assai diffusa a Venezia tra il XV e il XVI secolo: gli archivi riportano notizia di continui processi per punire gli atti definiti “contro natura”, di roghi e decapitazioni nella Serenissima et civilissima città.

Per tornare al termine, oggi carampana sta a significare – secondo il De Mauro Paravia – «donna vecchia e allampanata», caratteristica quest’ultima riconducibile proprio ai secoli d’oro della Repubblica. Le prostitute, infatti, oltre ad esibire acconciature di quell’improbabile colore detto “rosso veneziano” (che poco aveva a che fare con le fulgide chiome tizianesche), indossavano pure i calcagnini (o chopine), caratteristici zoccoli con la zeppa alta quasi 50 centimetri, che le rendeva mezzo metro più alte delle altre. Anche per quel “donna vecchia”, epiteto ormai entrato nell’uso comune con malinconica sfumatura dispregiativa, può esistere una spiegazione plausibile. Si sa che nel Settecento, secolo particolarmente disinibito, grazie a nuove leggi che volevano incrementare il turismo in città – nulla di nuovo sotto il sole! – le meretrici giovani e belle ebbero il permesso di tornare ad esercitare indisturbate in giro per Venezia, mentre a Ca’ Rampani e dintorni rimasero solo le più anziane, che ci vivevano relegate come in ospizio.

Se lavorassero, non è certo: magari a prezzi modici imposti dal Governo, e meglio se non si facevano vedere troppo in giro, per non turbare l’estetica. Né cortigiane oneste, come era stata Veronica Franco (la cui memoria era avvolta da un’aura intellettuale), né cortigiane da lume, ossia le prostitute in servizio.

Qualche austriaco, nella città ormai conquistata, fece in tempo a vederle alla finestra, le lucciole carampane. Poi fu il tempo degli scialli alla Favretto, del pudore e della carità. Fu il tempo delle maranteghe, ma questa è un’altra storia.

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