LA PAROLA

Fame

Variant d’un petit déjeuner, Daniel Spoerri, 1965

Dal latino fames, e, andando ancora più indietro, dal greco φαγῳ (phago) ossia mangio, divoro, da cui fagmes e poi, appunto, fames. Molte fonti sottolineano l’importanza della radice fa-, comune al latino fatisci, nel dare proprio l’idea di mancanza, e quindi bisogno, desiderio, necessità.

Ed è appunto il bisogno di cibo a stimolare la fame: sensazione viscerale, segnale primario, spinta; la fame è connaturale ad ogni individuo, ci si sveglia affamati ogni mattino. Una cascata di eventi nervosi e ormonali la caratterizza dal punto di vista biochimico: dopo qualche ora di digiuno il calo in circolo di insulina e leptina e, parallelamente, l’aumento della secrezione di grelina – piccoli peptidi questi ultimi due, detti rispettivamente ormone della sazietà e ormone della fame – finiscono con l’attivare, attraverso una serie complessa di reti neuronali e la mediazione di diversi neurotrasmettitori, un gruppo di cellule ipotalamiche responsabili della produzione di orexina: la molecola che ci fa aprire la scatola dei biscotti, friggere fette di bacon, fare la fila al bar davanti alla vetrina delle brioche oppure in una bancarella per gli involtini di foglie di loto o le polpettine di pesce speziato. 

Fame è anche insufficienza o mancanza di cibo in conseguenza di particolari condizioni economiche: miseria, carestia. È quella che affligge a tutt’oggi l’11% della popolazione mondiale (dati ONU) nonostante le risorse del pianeta siano sufficienti per tutti e una percentuale ancora maggiore, il 13% della popolazione adulta, sia obesa.

È stata la fame, e la ricerca continua da parte dell’essere umano di affrancarsene, fin dalla stessa adozione dell’agricoltura, a determinare trasformazioni sociali, competizioni geopolitiche, sviluppo ed espansione economica, conflitti militari, migrazioni di massa.

A livello individuale, la fame è in grado di modificarci uno per uno, radicalmente, fino ad ogni singola fibra di noi stessi, come hanno raccontato i sopravvissuti dei lager nazisti e come – più o meno nello stesso periodo sebbene con intenti del tutto diversi – hanno dimostrato i ricercatori dello storico, e mai più ripetuto, esperimento del Minnesota Study: la restrizione alimentare prolungata provoca modificazioni significative ben al di là di quelle strettamente fisiche, che, sebbene regressive in seguito a rialimentazione, sono in grado di incidere pesantemente anche sul comportamento e sulla personalità; depressione, crisi colleriche, isolamento sociale, tendenza a conservare ninnoli e cianfrusaglie, autolesionismo, senso di inadeguatezza, e ancora ipersensibilità al rumore, apatia, instabilità emotiva, fino a veri e propri episodi psicotici.

La voce della fame è un segnale difficile da sopprimere; siamo programmati per avere fame: il suo ruolo fondamentale per la sopravvivenza spiega non solo l’organizzazione fisiologica elaborata e ridondante capace di utilizzare anche segnali divergenti tra loro, ma soprattutto il fatto di essere stata corredata, dal punto di vista evolutivo, di una dimensione affettiva: lo stimolo della fame viaggia nella stessa rete neuronale la cui attivazione genera intrinsecamente piacere.

Feto, David Reimondo, 2007 – fette di pane tostato in blocco di resina

Desiderio intenso, bramosia, la fame è pulsione, battito, movimento, vita. «Ma esiste una fame che è solo di cibo? Esiste una fame del ventre che non sia indizio di una fame più generalizzata?» si chiede Amélie Nothomb nella sua autobiografia (Biografia della fame, Voland 2004). Rispondendo all’interrogativo, l’autrice belga, fornisce al tempo stesso una definizione indovinata del termine: «La fame è volere. È un desiderio più grande del desiderio. Non è la volontà, che è forza. Non è neanche una debolezza, perché la fame non conosce passività. L’affamato è qualcuno che cerca. (…) C’è nella fame una dinamica che proibisce di accettare il proprio stato. È un volere che è intollerabile».

Fame è motivazione all’azione, ricettività, apertura verso l’esterno, propensione ad annodare,  incentivo alla relazione, curiosità.

Riecheggiano in tema le parole di Calvino durante una conferenza newyorkese del 1983: «Nella mia esperienza la spinta a scrivere è sempre legata alla mancanza di qualcosa che si vorrebbe conoscere e possedere, qualcosa che ci sfugge. E siccome conosco bene questo tipo di spinta, mi sembra di poterla riconoscere anche nei grandi scrittori le cui voci sembrano giungerci dalla cima di un’esperienza assoluta. Quello che essi ci trasmettono è il senso dell’approccio all’esperienza, più che il senso dell’esperienza raggiunta; il loro segreto è il saper conservare intatta la forza del desiderio».

Per il suo aver a che fare con la vita stessa e con il suo contrario, la fame affascina; ciò rende ancora più complesso trovare cause e fornire spiegazioni nel caso in cui questa sia assente, o meglio – a dispetto dell’etimologia – quando ci si opponga ad essa fino all’estremo; si chiama anoressia, ma questa è un’altra parola.