Nel fango delle trincee del Carso, i malandati soldati dell’italo esercito ben presto scoprirono che peggio del freddo e della fame era la sete. In tanti, al colmo della disperazione, per dissetarsi sciolsero la neve inquinata dai cadaveri in decomposizione e annerita dalla guerra. Feroci epidemie di tifo devastarono, così, interi plotoni nelle lunghe attese di difficili rifornimenti idrici, che non sempre arrivarono a destinazione.
Incredibilmente, nel ghiaccio e nel gelo, la salvezza, per tanti militari, arrivò dal caldo dell’Africa. I più intraprendenti ricordarono, infatti, che, nella guerra di Libia, nessuno muoveva un passo senza il suo otre di pelle in spalla. Gli arabi, che ne facevano uso da secoli, l’avevano chiamata qirba; gli italiani conobbero così la loro ghirba. Nella guerra coloniale fu facile reperire pelli che avevano anche la proprietà di mantenere fresca l’acqua da trasportare. Non fu così sul Carso. Nella disperazione della Grande Guerra nacquero spesso surrogati della ghirba di pelle, costruiti con ogni tipo di tessuto. Gli alpini, in particolare, furono abilissimi a realizzare le loro ghirbe e, nella solidarietà maturata in trincea, ne fecero e ne regalarono al resto della truppa.
Oggi si è persa perfino la conoscenza del termine ghirba. In un camping e nei moderni corsi di sopravvivenza può capitare di osservare un oltre di pelle pieno d’acqua penzolante da un albero. Si tratta solo di un puerile tentativo di avvicinare la finzione del gioco alla realtà: non ci sono, infatti, assetati da rifocillare e non c’è neanche il ricordo della vecchia ghirba.
Eppure tanta fu l’importanza di quel banale otre che la ghirba divenne, in trincea, perfino metafora della vita. Anche oggi, nel lessico militare, se è scomparsa una reale conoscenza del termine, restano tuttavia espressioni come “salvare la ghirba” o “lasciarci la ghirba”. Vita o morte come per quei primi soldati assetati nel pantano delle trincee.
Ardengo Soffici, pittore futurista del primo novecento, indomito interventista, non faticò molto a trovare il nome della testata quando ebbe l’idea di realizzare un giornale da trincea. Intorno a “La ghirba”, stampato con i più incredibili mezzi di fortuna, Soffici riuscì a radunare intellettuali in uniforme come Giorgio De Chirico, Aldo Zamboni, Silvio Canevari. Concepito dopo la disfatta di Caporetto, col motto «la guerra è amara, addolciamola con l’allegria», “La ghirba” venne pubblicato 29 volte tra l’aprile e il dicembre 1918. I numeri, digitalizzati di recente, offrono una lettera particolare e di grande interesse della tragedia che fu il primo conflitto mondiale.