LA PAROLA

Giogo

Il giogo si poneva un tempo di traverso sul collo di una coppia di buoi e veniva utilizzato per collegare il tiro del carro o dell’aratro agli animali da traino.

Costruiti di solito nelle fattorie o nei poderi dagli stessi contadini, questi arcaici arnesi presentavano delle incurvature laterali, dette “nottole”, sagomate per essere poggiate sulla parte più alta del dorso di questi possenti animali da tiro, dove al centro si trova un anello attraverso il quale si infilava e si fissava il timone del carro.

Il giogo, insieme all’aratro, è forse fin dall’antichità lo strumento più caratteristico della lavorazione dei campi. Un attrezzo usato fin dall’antichità, che esperti artigiani ottenevano da un unico pezzo di legno leggero, di solito pioppo o gelso, proprio per non farlo pesare eccessivamente. I gioghi erano di varie dimensioni e tipologie, a seconda del bestiame utilizzato, del tipo di terreno e dell’uso che se ne faceva. Spesso presentavano anche disegni stilizzati o curiose incisioni decorative.

Quelli più piccoli erano utilizzati per la “domatura” o per l’adattamento del bestiame al lavoro. Infatti i bovini venivano appaiati e allenati al giogo, al posto di destra o di sinistra, e in quella posizione erano costantemente mantenuti, fisicamente obbligati ad abbassare la testa.

Almeno fino agli anni Venti del secolo scorso, quando sono comparsi i primi trattori, i buoi rappresentavano l’unico “motore” disponibile e mai nessuno aveva messo il carro davanti ai buoi.

In senso figurativo risulta inevitabile e quasi scontato il fatto che in araldica l’utilizzo iconografico di questo attrezzo finisca quasi sempre per suggellare un chiaro riferimento ad uno stato di sottomissione, di dominio oppressivo. E di conseguenza togliere o spezzare il giogo significava liberazione da schiavitù e sfruttamento.

ell’antichità, e per i Romani in particolar modo, “passare sotto il giogo” definiva una sorte di avvilimento considerata tra le più ignominiose. Nelle sentenze civili, la condanna prevedeva questa pena, e per infliggerla si conficcavano due pali in terra, sormontati da un legno posto a traverso, che formava così una specie di porta o forca, sotto di cui si obbligava a passare il malcapitato. Questa umiliante imposizione era destinata ai comandanti degli eserciti sconfitti, che venivano così costretti ad abbassare la testa nell’inequivocabile atteggiamento di sottomissione rivolto al più forte.

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