È umana tendenza quella che, più che far essere radicati in terra, fa sentire ancorati a terra. A parte rare eccezioni, la maggioranza delle persone trascina il sacco delle proprie fatiche quotidiane come i Camalli genovesi (da camallâ, trasportare pesi sulla schiena) che potevano scegliere tra due tipi di ingaggio: «con diritto di mugugno» o «senza mugugno», chi firmava il contratto «con mugugno», percepiva una paga inferiore, ma poteva lavorare mugugnando e brontolando.
Una sofferenza proporzionale a quanto i problemi ci invadono, o meglio, quanto permettiamo loro di invaderci, con l’inevitabile conseguenza di diventare noi stessi il problema. Uno sforzo di riconfermarci al mondo, ogni mattina, come mirabilmente descrive Julio Cortázar nelle sue Storie di cronopios e di famas:
«Il lavoro di ammorbidire il mattone tutti i giorni, il lavoro di aprirsi un passaggio nella massa appiccicosa che si proclama mondo, ogni mattina inciampare nel parallelepipedo dal nome ripugnante, con una canina soddisfazione che tutto è al suo posto, la stessa donna accanto, le stesse scarpe, lo stesso sapore dello stesso dentifricio, la stessa tristezza delle case di fronte, della sporca scacchiera delle persiane con la scritta HOTEL DE BELGIQUE. Puntare la testa come un toro svogliato contro la massa trasparente al cui centro prendiamo il caffelatte e apriamo il giornale per vedere quel che è successo in un qualsiasi angolo del mattone di cristallo. Rifiutarsi a che il delicato gesto di girare la maniglia, gesto grazie al quale tutto potrebbe trasformarsi, avvenga con la fredda efficacia di un riflesso quotidiano. A presto cara. Buona giornata. Stringere un cucchiaino fra le dita e sentire il battito del suo polso di metallo, il suo diffidente ammonimento. Come fa male negare un cucchiaino, negare una porta, negare tutto ciò che l’abitudine lecca fino a dargli una soddisfacente levigatezza. Tanto più semplice accettare la facile sollecitudine del cucchiaio, usarlo per girare il caffè. E non che sia brutto che le cose ci trovino ogni giorno di nuovo e sempre le stesse. Che accanto a noi ci sia la stessa donna, lo stesso orologio, e che il romanzo aperto sul tavolo inforchi di nuovo la bicicletta dei nostri occhiali, perché dovrebbe essere brutto? Ma come un toro triste bisogna abbassare la testa, dal centro del mattone di cristallo spingere verso il fuori, verso l’altro tanto vicino a noi, inafferabile come il picador tanto vicino al toro. Castigarsi gli occhi guardando quella cosa che si muove nel cielo e che sornionamente accetta il nome di nuvola, la sua risposta catalogata nella memoria. Non credere che il telefono ti dia i numeri che cerchi. Perché dovrebbe? Verrà soltanto quel che hai preparato e deciso, il triste riflesso della tua speranza, questa scimmia che si gratta su una tavola e trema di freddo. Spaccale la testa, alla scimmia, corri dal centro verso il muro e apriti un passaggio. Oh, come cantano al piano di sopra! C’è un piano di sopra in questa casa, con altra gente. C’è un piano di sopra dove vive gente che non sospetta del suo piano di sotto, e stiamo tutti nel mattone di cristallo. E se all’improvviso una tarma si ferma sul bordo di una matita e palpita come un fuoco, guardala, io la sto guardando, sto palpando il suo piccolissimo cuore, e la sento, questa tarma risuona nella pasta di cristallo congelato, non tutto è perduto. Non appena aprirò la porta e mi affaccerò alle scale, saprò che sotto inizia la strada; non lo stampo ormai accettato, non le case che sappiamo, non l’albergo di fronte: la strada, la viva foresta ove ogni istante può piovermi addosso come una magnolia, ove i volti nasceranno man mano che li guarderò, quando andrò avanti ancora un poco, quando con i gomiti e le palpebre e le unghie andrò a fracassarmi minuziosamente contro la pasta del mattone di cristallo, e mi giocherò la vita avanzando un passo dopo l’altro per andare a comperare il giornale all’angolo».
Educati alla pesantezza della vita da genitori che a loro volta solo quello avevano imparato cresciuti nella società del «c’è chi sta peggio», ovvero il modo più semplice di annullare il desiderio ad aspirare a qualcosa di meglio.
Ma aldilà delle parole, dell’educazione, della crosta insensibile che avvolge la società, nel fondo di ognuno di noi si agita un animalino benefico che anela all’assenza di Gravità, nelle sue due accezioni di assenza di peso e assenza di tormento, come ci insegnano le abbondanti e gioiose sculture dell’artista cinese Xu Hong Fei, maestro di Leggerezza.
La Leggerezza è una predisposizione dell’anima, ma deve essere coltivata, curata e profumata e, sopratutto, non vi si accede se non ci permettiamo di cambiare lo sguardo sulle nostre vite. Einstein ha detto che «non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato», invitandoci a trasformare piccole e grandi sofferenze attraverso l’opportunità di vedere con altri occhi.
Magritte Grande famille: un’immensa colomba, fatta di bianche nuvole, si leva in volo da un mare in burrasca e, con la sua apparizione, pare quasi dissipare l’oscurità di un cielo tempestoso, che già trascolora nel rosa.
«Mi sono tolto un peso», «mi sento più leggero», simboli della risoluzione di un problema: un lungo sospiro liberatorio, muscoli facciali che si rilassano, il corpo che si raddrizza verso il cielo, l’aspirazione alla Leggerezza che si concretizza. Il nostro sforzo assume sfumature diverse nel momento stesso che gli attribuiamo il valore liberatorio del riconoscerci apprezzamento e gratitudine per le azioni che compiamo ogni giorno, come ci suggerisce Pennac: «Credo solo agli atti, amore mio. Ai piccoli atti. Piccolissimi. Cazzuti. Quelli che fanno la felicità del giorno e del perimetro, niente di più», riconoscimenti che ci renderanno le giornate più leggere. La Leggerezza si impara: si predispongono in sequenza il pensiero, la parola, l’azione perché il primo contamina la seconda che materializza la terza.
Hop, hop, hop
com’è misteriosa la leggerezza
hop, hop, hop
è una strana cosa, è una carezza
che non vuoi
hop, hop, hop
butta via il dolore, la pesantezza
hop, hop, hop
cerca di inventare la tua leggerezza
e volerai. Giorgio Gaber La Leggerezza
Salvador Dalì, l’eccessivo, arrogante, eccentrico, vile, avido, genio, ha involontariamente lasciato un grande messaggio. Uno stimolo per i giovani contemporanei, così privi di senso estetico verso se stessi, ma anche per i più anziani che il senso estetico lo hanno perso. Qualcosa da tenere in tasca ed estrarre alla bisogna: «Ogni mattina, al risveglio, provo l’immenso piacere di essere Salvador Dalì, e chiedo a me stesso, con curiosità, quale cosa portentosa farà oggi questo Salvador Dalì».
Basta sostituire il nome di Dalì col proprio…
Inventare la propria Leggerezza è un’atto creativo individuale e contaminante. Lasciamoci, quindi, avvolgere da questa meravigliosa sensazione del togliere peso rendendola la nostra nuova missione di creatori di valori
«E se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante
cancella col coraggio quella supplica dagli occhi
troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante
e quasi sempre dietro la collina è il sole…………………….
un sorriso che non ha
né più un volto né più un’età
e respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini
ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini
e più in alto e più in là
se chiudi gli occhi un istante
ora figli dell’immensità……………………………….»
Lucio Battisti La Collina dei Ciliegi
Allora, Don’t Worry Be Happy e lasciamoci corrompere dal nostro genio interiore, non abbiamone paura, perché rappresenta la nostra unicità. Salvaguardiamo il nostro diritto alla Leggerezza come spiega Calvino nelle sue Lezioni americane
«Prendete la vita con leggerezza,
che leggerezza non è superficialità,
ma planare sulle cose dall’alto,
non avere macigni sul cuore»
Quindi, per concludere, dando per scontato che finché c’è vita c’è speranza, apriamo e anche chiudiamo le nostre giornate con questo inno a se stessi. Buona Vita.
It’s a new dawn,
It’s a new day,
It’s a new life,
For me, yeah.
Nina Simone Feeling good