LA PAROLA

Muluni


Da qualche settimana, nel reparto ortofrutta del supermercato che abitualmente frequento, accatastati in grandi contenitori ci sono diverse varietà di “muluni” (cocomero – anguria). Giganteggiano quelli di forma ellissoidale, dal peso esagerato, con strisce chiare sul verde della buccia. La parola muluni è invariabile, tranne nel diminuitivo “muluneddu/i” (cocomerino/i) per definire quelli rotondi di taglia più piccola dal colore verde intenso.

A stimolare l’acquolina in bocca sono quelli affettati simmetricamente che, avvolti nel ‘cellophane’, illuminati dalle alogene, esaltano il rosso carnoso della polpa, costellato dalle scaglie zuccherine in superficie e dai semi neri luccicanti, mentre dall’altoparlante una voce suadente invita «soci e clienti» all’acquisto super-scontato.

Altri tempi quando, per le strade di Firenze,  scoprivamo i chioschi dei cocomerai con i “bottacci” stracolmi di muluni e cristalli di ghiaccio a presidiare le notti afose dell’estate. Rivedo lo stupore di Joselyn, affabile turista americana, che apprezzandone la fragranza, sorridendo esclamava : «Oh delicious Pippo! Very, pardon… molto bono! Another… dici fetta? Crazie».

La pianta, originaria dell’Africa, si è propagata in tutto il mondo subendo negli anni evoluzioni sperimentali nel formato, nel colore e nel gusto. Probabilmente in Sicilia è stata portata dagli Arabi durante la loro dominazione. Ora che da quelle sponde, migliaia di migranti disperati, continuano a partire sfidando il destino, chiudiamo i porti ad alcune navi che li salvano dalle onde del mare, non consentendone l’approdo, nell’assurda indifferenza politica delle Nazioni Unite (Unite, per modo di dire). È triste pensare ai molti bambini che sulle imbarcazioni da giorni patiscono le vampate di calore del Solstizio d’Estate. Chissà se i volontari sui pontili gli offriranno il rinfrescante dolce di “jèlu ‘i muluni” (gelo di cocomero) a lenire per un attimo l’arsura e la dolente innocenza?

Il muluni con i suoi sgargianti colori ha ispirato gli artisti di ogni tempo e di ogni genere, dipinto sulle tele di «Natura morta», da solo o con altra frutta, ha contaminato il Rinascimento e nel secolo scorso, è stato un soggetto anche per Renato Guttuso (citato per campanilismo). Per non dire dei fotografi, dei grafici, dei cuochi-scultori – quest’ultimi incidendolo,  realizzano fantastiche e fugaci opere d’arte sulle tavole imbandite nelle cerimonie importanti; perfino i poeti hanno scritto dei versi e non solo nella “miniminàgghia” (indovinello) che mi faceva impazzire da piccolo: «Evi tunnu e no è munnu, evi russu e no è focu, evi acqua e no è funtana, evi virdi e no è erba. Chi evi?» . (È tondo e non è mondo, è rosso e non è fuoco, è acqua e non è fontana, è verde e non è erba. Cos’è?) .

Al mio paese ogni anno nel mese di agosto, in coincidenza con le festività per San Rocco, i commercianti di frutta portavano camion di muluni. Per non bloccare il traffico, li scaricavano velocemente sul marciapiede nei dintorni della chiesa, coperto da soffice paglia per evitargli ammaccature. Dopo, con pazienza e precisione, li mettevano uno sull’altro formando alte piramidi. Per tutta la settimana si sentiva il loro vociare tra lo scampanio per le funzioni religiose e l’esplosione dei mortaretti. In spietata concorrenza, si vantavano che i muluni erano di primissima scelta, innaffiati con l’acqua cristallina del fiume Simeto «‘nte jardìni ‘bbiviratìzzi ‘nta chiana ‘i Catania» (nei giardini irrigati nella piana di Catania) e maturati al sole cocente, ma soprattutto non erano … “cucùzzi” (zucche)!

Don Cammèlu (Carmelo) offriva a tutti l’assaggio con garanzia dicendo: «Ccu mia non c’evi truffa e mancu ‘ngànnu ! Tranquilli! Sìddu non evi duci e vi pari cucùzza ‘u jttàmmu e ni scannàmmu ‘n autru!». (Con me non c’è truffa e nemmeno inganno! Tranquilli! Se non è dolce e vi sembra zucca lo buttiamo e ne scanniamo un altro!). In continuazione ripeteva la litania alle persone che si avvicinavano per comprare. Ogni tanto con l’affilato coltello, come sciabola sguainata, infilzava il tassello, lo alzava in aria deciso e roteandolo in alto sfidava il collega postato nelle vicinanze chiamandolo ad alta voce: «Oh ‘Bbastiànu, scùta ‘Bbastiànu, talìja chi ti mmùstru! Di chisti non ci ‘nnai, talìja comm’è russu. Focu evi focu e chi scassàu a Muntagna? – rivolto ai clienti continuava – evi zzùccuru, tastàtulu tastàtulu».(Oh Sebastiano, ascolta Sebastiano, guarda cosa ti mostro! Di questi non ne hai, guarda come è rosso. Fuoco è fuoco e che è esplosa l’Etna ? -…- è zucchero, assaggiatelo ).

Non essendoci nelle case il frigorifero, in  molti si fidavano e non volevano fatto il tassello. Si evitava così che l’acqua fresca nel “lavìzzu” (pentolone), dove immergevano il muluni, infiltrandosi nel taglio ne sciupasse il sapore;  a casa mia fungeva da frigo una grande cisterna che raccoglieva dal tetto l’acqua piovana, il muluni veniva  inserito nel paniere di vimini e calato in profondità per poi tirarlo e gustarlo nella sua naturale freschezza, ma più di una volta, negli anni, risultò… cucùzza!

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