LA PAROLA

PETA (People for the Ethical Treatment of Animals)

Non esageriamo. Una cosa è il dovuto rispetto, anche nelle citazioni lessicali, della fauna e, per chi vuole, anche della flora. Ma un’altra, ben diversa, è ciò che in Toscana, quelli educati definiscono una bischerata e quelli meno educati classificano in altro modo. Secondo un’associazione inglese che si chiama “People for the ethical treatment of animals”, ovvero PETA (mai nome fu più appropriato), bisogna farla finita con modi di dire come “menare il can per l’aia”. Nessuno, infatti, secondo i fans della PETA, ci autorizza a utilizzare il nostro nobile animale in discorsi che non lo riguardano. Roba eticamente irrispettosa. Nella sostanza, nell’aia dovremmo menare altro, ma non certo il cane di famiglia. Nella sorpresa ci viene da obbiettare che al massimo potremmo cambiare il verbo, per non dare adito a interpretazioni leggermente più violente quali quelle che il “menar” potrebbe sottintendere. Ma altro, suvvia, no di certo. Anche perché una sgambatina il nostro amico Fido l’ha sempre gradita. Magari non nell’aia dove la polvere è tanta, gli spazi sono stretti, il panorama monotono e spesso manca anche un albero o un palo per i bisogni impellenti.

Per non dire che, pensando da PETA, dovremmo mandare in discarica i dizionari di tutte le lingue. Perché, da che uomo e uomo, anche gli animali sono animali soprattutto nei luoghi comuni della lingua parlata. Lasciamo perdere le eccezioni tipo il “coraggio da leone”, la “memoria da elefante”, la “vista da aquila”, l’”astuzia di una volpe” e pensiamo al resto senza neanche indulgere sui negativi paragoni con cui gli animali si accostano ai peggiori di noi: “cervello di gallina”, “stupida come un’oca”, “lento come una tartaruga”, “infido come una vipera”, “sudicio come un maiale”. Piuttosto è proprio il colloquiare quotidiano che richiama una domestica savana.

Così capita di star sul bus “stretti come acciughe” o di vivere una difficoltà sulle quale a cadere è sempre l’asino che, in quanto a infelici richiami, non è secondo neanche nella giungla. Tanto è vero che perfino il mansueto bue attenua la sua condizione di cornuto, imprecando contro il povero somarello. Meglio va al cavallo che non se la passa male quando, “di razza”, viene avvicinato a bipedi importanti, ma ahimè anche lui spesso si vede costretto a subire il “darsi all’ippica”. Quasi che il correre, e magari vincere in pista, sia disdicevole.

Il coccodrillo, che non ha mai pianto il vita sua, si ritrova invece a lacrimare tutte le volte in cui qualcuno commette il peggiore dei misfatti di cui sollecitamente si dichiara pentito. E chissà perché il mulo, che lavora a tace, debba essere il compagno del più duro dei suoi amici uomini. Su insetti e volatili c’è di tutto: in Parlamento va di moda “il salto della quaglia”, i sassi si tirano sempre in piccionaia, la mosca anche quando è fastidiosa, “non fa male a nessuno” forse perché è costretta al mutismo dal perentorio “zitto e mosca” o dalla paura di qualcuno a cui “è saltata la mosca al naso”. L’umana indifferenza è da sempre quella del “pesce in barile”, luogo scomodo per l’animale ma sempre meglio che “fuor d’acqua”. I ragni non si è capaci di “cavarli dal buco” forse perché, nonostante tutto, nessuno ha mai visto un ragno rintanato.
La speranza ce la recano le cicogne che, bellissime, si dice, portino i bambini ai quali, tanto per essere chiari fin dal principio, una petina si tollera volentieri ma non certo una futura iscrizione alla PETA.

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