LA PAROLA

Rottura

La parola rottura definisce l’azione di rompere. Questo vale per un incidente o per liberarsi deliberatamente di oggetti che ormai hanno fatto il loro tempo. Si rompe un vetro, ma anche un braccio o una gamba. Dalla stessa parola derivano anche tutta una serie di espressioni per manifestare, in modo colorito e piuttosto volgare, situazioni imbarazzanti o personaggi sgraditi. Il repertorio contempla la rottura o, ancora meglio, il “rottorio” di coglioni, di scatole, di stivali, di corbelli, a seconda delle diverse regioni italiane.

Ma è rottura anche un cambiamento traumatico: si rompe per l’entusiasmo di cambiare,  pensando sempre di farlo per il meglio, per non restare prigionieri del passato.

Così facendo la rottura può diventare distruzione, violazione di legami e accordi, privati e personali,  economici e politici.

La parola d’ordine è sempre la stessa: rompere col passato, innovare radicalmente.

Lo si può fare con un’opera d’arte o con un film. Lo si fa soprattutto in politica, quando si rompe un’alleanza o non si rispetta  una coalizione di governo, quando si viola un patto o si rompono le relazioni diplomatiche, le tradizioni, talvolta addirittura i valori.

Del resto non mancano i successi, anche duraturi, ottenuti grazie a una rottura. Basta pensare a due casi storici emblematici, che si celebrano proprio quest’anno: la rottura di Lutero con la Chiesa di Roma e la rottura di Lenin con lo stato zarista. Lutero non si proponeva la rottura, ma Papa Leone X il 3 gennaio 1521 lo scomunicò, giudicando eretiche le sue posizioni. Quanto a Lenin, bisogna riconoscere che aveva le idee chiare: voleva abbattere il potere dello zar e realizzò il suo obiettivo  in men che non si dica. Gli furono sufficienti appena sei mesi per conquistare il potere assoluto in Russia.

Oggi la rottura ha il volto del presidente della Catalogna  Carles Puigdemont, partito a spada tratta per rompere la Spagna e scappato a gambe levate alle prime difficoltà.

Meglio passare al film premio Oscar 2015 di Pawel Pawilikowski, che ci racconta la storia di Ida, giovane orfana cresciuta in convento e pronta a farsi suora, che scopre di essere ebrea e corre alla ricerca delle sue radici. Ma, alla fine del viaggio, deciderà di tornare al convento che l’aveva salvata, rinunciando al mondo della sua riscoperta identità. È solo un film, ma  emblematico dei tanti casi di rottura seguiti da un ripensamento e quindi senza alcuna innovazione, come succede per tante rotture che sono solo apparenti.

Peggio delle rotture apparenti è il fenomeno del gattopardismo. «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», lanciava con un sorrisetto maligno Tancredi Falconeri al Principe di Salina, che non aveva apprezzato la partecipazione del nipote alla spedizione dei Mille. Un motto coniato nel Risorgimento, che purtroppo si è diffuso a macchia d’olio con esempi illustri che non si limitano al nostro Paese.

La parola gattopardismo è così riuscita a sfondare addirittura sulla Treccani: si tratta  dell’atteggiamento «proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a una nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’essere promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe».  È così che muore la rottura.

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