LA PAROLA

Revival

Ci sono parole che spiegano bene l’eterno ritorno dell’uguale, seppure con qualche sbavatura, e una di queste è senz’altro revival: parola buona per tutte le stagioni e adatta a ogni circostanza, la possiamo applicare alle nostre vite tutte le volte che incontriamo di nuovo qualcosa che guarda caso non è una novità. Collezioniamo pure dei veri e propri revival degli errori, come ogni essere umano che si rispetti. Ma cos’è questo revival?

Lo chiediamo come al solito alla Treccani, che ci informa che revival è un sostantivo inglese che significa letteralmente «rinascita, risveglio», derivato di (torevive «rivivere», usato in italiano al maschile, e che indica «il fatto di tornare di attualità, di stili, modelli, tendenze e correnti di un passato recente, specialmente nel campo della moda, dello spettacolo, della musica, della letteratura e dell’arte, dell’architettura e dell’arredamento, e in genere del costume».

Perciò definisce, prima di ogni cosa, un ritorno alla ribalta di qualche buona o cattiva cosa che era passata, come in genere fa un raffreddore, senza troppo clamore, ma che magari aveva a lungo calcato le scene, e con gran trionfo. Il revival ha qualcosa a che fare anche con la nostalgia, con la logica dei bei tempi andati, con la purezza originaria, con le radici di quel che scompare, con l’imitazione e pure con il travestimento: ma andiamo con ordine.

Nostalgia. Quella che spinge l’umano cinquantenne a procurarsi un piatto e un amplificatore apposta per riesumare i suoi LP; e che, non pago, ammorba tutta la famiglia compreso il cane con un revival di settimane dei suoi gusti musicali di quando aveva sedici anni. Era solo un esempio delle centinaia di revival che si possono vivere ritrovando qualcosa del passato, in una sorta di rito del sé a volte assai appagante, soprattutto se si è da soli e il cane è abituato a qualche intemperanza del quotidiano.

La logica dei bei tempi andati. Questa è più sottile e si tira dietro un treno di pregiudizi, sul presente e sul futuro; appartiene a quelli che, caduti nel vortice del revival, raccontano a tutti di quando erano bambini, di mamma e di papà, e però hanno ottant’anni. Oppure intonano caroleiquandoceralui, e giù sassate all’Assemblea costituente, incuranti del tempo e della storia. Altri buoni argomenti di revival dei bei tempi andati sono i mezzi di trasporto, le buone maniere, il comportamento delle donne, dei bambini, dei domestici; gli usi e costumi, le buone tradizioni, il cibo e la città. Infine, naturalmente, la natura. E chi altri?

La purezza originaria. Chi la agogna vive con grande ira in questo sudicio mondo; nel suo campo di elezione è fondamentalista e dunque esagitato, pieno di certezze e a volte di pathos, spesso in missione per conto di un dio quello vero, e intento a fare proselitismo di scalzi e ignudi. Quello religioso è un revival che torna ad ogni stagione, come la collezione di uno stilista: di revival religioso si è parlato spesso nel mondo protestante, che fra XVIII e XIX secolo venne percorso da ondate di rinnovamento e risveglio.

Una serie di movimenti evangelici contestarono le grandi chiese storiche, considerate inattive e ingessate in dogmi e rituali; animati da predicatori accaniti e nuovi profeti, portarono un’ondata di rinnovamento religioso a colpi di Bibbia. Wikipedia al riguardo ci dice: «Essi agivano sia nel contesto tradizionale del culto domenicale, in riunioni di preghiera e di studio biblico, sia in sale pubbliche, in tende o all’aperto, da cui sorse l’espressione “riunioni di risveglio”. In un ambiente culturale, sociale e religioso povero e degradato, pure il canto di inni cristiani e la preghiera spontanea diventavano strumenti di crescita umana e spirituale. Quest’opera di “risveglio” era ed è attribuita allo Spirito Santo, “che soffia dove vuole”».

Occhio a dove soffia lo Spirito Santo, dunque!

Le radici di quel che scompare si vanno a cercare soprattutto in campagna, un tempo fonte di sostentamento e di saperi e sapori perduti. Alla ricerca del tesoro vanno agronomi, nutrizionisti, coltivatori, intere comunità locali; le cerca il laureato alla Bocconi che compra la terra e le capre, e impara a fare il formaggio o coltiva i grani antichi. Spesso questo tipo di revival di mestieri e colture fa trovare altri tipi di tesori, che nessuno di noi conosce più: il tempo, la pazienza, la lentezza, l’attesa. «La limpida meraviglia di un delirante fermento», direbbe Ungaretti.

L’imitazione comincia in sordina, si limita a uno o due aspetti; quando si esce di casa, ad esempio, non ci verrebbe mai in mente di fare il dolce tradizionale che fa nostra nonna. Poi passano alcuni lustri ed eccoci là a raccogliere il testimone per i posteri, anche se l’impasto va esposto alla luce della luna e bisogna fare un giro attorno al tavolo prima di lavorarlo. L’imitazione ci fa ripercorrere i passi degli avi, e quando saranno andati saremo già pronti a rievocarne le gesta con le gesta, in un revival dal quale è meglio non farsi travolgere.

Il travestimento è un vero e proprio revival in alcuni casi diffusi nel mondo di oggi. Avete presente le schiere che di domenica vestono come soldati d’altri tempi e si fronteggiano sulla collina, rievocando qualche famosa battaglia della storia? Non è più raro vedere nelle piazze delle città manifestazioni multiepoca, nelle quali si aggirano individui vestiti da legionari romani accanto a soldati della Wermacht. Si chiama rievocazione storica ed è un revival che somiglia alla nostalgia, ma di mondi sconosciuti e di tipo collettivo.

Tutti questi fattori assieme a volte diventano un revival etnico, come direbbe Anthony D. Smith, cioè quei comportamenti che definiscono una comunità, e che fanno da base, nei tempi moderni smarriti, al nazionalismo: parola che, nonostante i suoi tentativi di diventar neutra, non smette di conservare il sinistro ricordo dei pogrom.

La moda ci ha abituato ai suoi revival al punto che possiamo riesumare il pantalone a zampa ogni due anni, e anche la musica e la danza si sono date un gran daffare con questo anda e rianda dal passato. Dovunque discoteche per adulti propongono serate a tema anni ’70, anni ’80, anni ’90; a volte le tre cose assieme; nelle piazze si ballano danze popolari magari non autoctone, in flash mob che attirano i curiosi. Perché il revival collettivo ha sempre bisogno di pubblico, altrimenti che senso ha andare in scena?

Se adesso non è strano andare a una milonga anche se non si abita a Buenos Aires, lo dobbiamo a quel revival del tango che ha percorso tutto lo Stivale negli ultimi dieci anni: prima, era solo una cosa verde in una canzone di Paolo Conte.

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