LA PAROLA

Trattato

Fa troppo caldo? Tutta colpa di un trattato, o meglio ancora, della sua mancata attuazione.

L’Accordo di Parigi – il Trattato mondiale impegnato a contrastare il riscaldamento globale e a ridurre sensibilmente le emissioni di anidride carbonica, uno dei principali e più pericolosi gas serra – è stato di recente messo in crisi a causa dell’abbandono da parte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. La rottura è stato un atto gravissimo e le conseguenze ancor più.

Risaliva al 2015 ed era stato sottoscritto da 197 paesi, tutti tranne Siria e Nicaragua, anche grazie all’impegno dell’allora presidente USA Barak Obama. La decisione di Trump rischia ora di provocare serie conseguenze non solo per il peso degli Stati Uniti, ma anche per il rischio di portarsi dietro altri paesi, provocando un effetto domino. Tutto questo proprio quando sarebbe necessario l’impegno più serio di tutti per fronteggiare le condizioni di sofferenza climatica della terra, sempre più attaccata dal riscaldamento globale.

Ma non tutti i cittadini europei, di fronte alla parola trattato, pensano subito a quell’accordo sul clima così importante per la nostra stessa sopravvivenza. Probabilmente un inglese si concentrerà più sulla Brexit, pensando alla liberazione dai lacci dell’Europa, mentre un portoghese comincerà a fare i conti di quanto gli inglesi dovranno pagare per lasciare l’UE, a causa dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, di cui è probabile che la premier britannica Theresa May ignorasse l’esistenza. Quanto agli italiani, forse potranno continuare a cullarsi ancora un po’ con la primazia dei Trattati di Roma, salvo magari chiedersi, con tutti questi trattati europei, perché non ce ne sia uno in grado di risolvere la questione degli immigrati.

Certo è che l’articolo 50 del Trattato di Lisbona si sta rivelando un osso durissimo per la Brexit, soprattutto dopo la nomina a capo negoziatore, per conto dell’Unione europea, del francese Michel Barnier, uomo puntiglioso e non disponibile a fare sconti. D’altronde le dure regole del Trattato vanno rispettate e la rottura degli impegni assunti si paga. Piuttosto ci sarebbe da sottolineare che, con più informazione e meno propaganda, forse il risultato del referendum inglese sarebbe stato diverso.

I Trattati di Roma del 1957 e di Lisbona del 2007 sono i due assi portanti dell’Unione europea. Il primo riunisce una pluralità di trattati, che costituiscono la base legale delle molte decisioni per aprire la strada alla Comunità economica europea, che resta la base legale di molte decisioni, pur avendo subito notevoli modifiche in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Questo Trattato, insieme a quello sul funzionamento dell’Unione, ha consentito di aumentare i poteri del Parlamento europeo, apportando novità per adeguare le istituzioni comunitarie all’allargamento a 28 Stati membri.

Quelli di Roma e Lisbona sono Trattati tra Stati di natura politica. Esistono però anche altri tipi di trattati, non meno importanti, come quelli, ad esempio, che regolano i commerci internazionali: è il caso del recentissimo Trattato transatlantico di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti per la liberalizzazione delle barriere doganali, il Ttip, che racconta la storia di un fallimento annunciato. Dopo quattro anni di discussioni tra europei e americani, il progetto è stato definitivamente accantonato. In questo caso nessun dramma in Europa, con una certa soddisfazione da parte di non pochi imprenditori italiani, poco propensi a vedere penalizzate le loro produzioni di nicchia.

Oggi i trattati sono, in prevalenza, il frutto di accordi tra Stati su una pluralità di questioni, che riguardano il loro futuro comune. Ma non è stato sempre così, anzi questa è una storia che si evolve soltanto all’indomani della Seconda guerra mondiale. Prima di allora i trattati esistevano, ma si limitavano, per lo più, a sancire accordi di pace, al termine di una guerra.

È questo il caso della grande guerra del 14-18, quando i trattati falliscono clamorosamente il compito loro affidato, al termine di un conflitto mondiale, mentre era lecito attendere la risoluzione dei problemi per il futuro e non soltanto le sanzioni durissime per gli sconfitti del passato. A Parigi si fanno le cose in grande, a partire dall’impegno di provvedere alla redazione di 44 trattati, uno per paese, di cui i più importanti sono quelli di Versailles e di Saint-Germain. Ma gli sconfitti – Germania, Austria e Ungheria – non vengono ammessi alla conferenza di pace e sono costretti a firmare il Trattato contro la loro volontà e con le conseguenti pesantissime riparazioni, che avrebbero impedito loro qualsiasi forma di recupero.

Anche il Trattato che sancisce la nascita della Società delle Nazioni, organizzazione internazionale istituita dalle potenze vincitrici con lo scopo di mantenere la pace, punta a un’intesa di conservazione dell’assetto politico-territoriale già sancito. Con queste premesse non ci vuole molto a capire che gli sconfitti avrebbero mirato alla rivincita, mentre gli italiani già si sentono derubati della vittoria. «Questa non è una pace, è un armistizio per vent’anni», annuncia profetico Ferdinand Foch, ufficiale francese al comando degli alleati, commentando gli esiti assai controversi del Trattato. E Mussolini, nel suo primo discorso alla Camera come capo del governo, il 16 novembre del 1922, ammonisce che «i trattati di pace non sono eterni». La Seconda guerra mondiale è già dietro l’angolo.

Prima della Grande guerra, nel XIX secolo, è tutto un fiorire di Trattati di pace, e quindi di molte guerre. La novità più interessante è costituita dai trattati militari difensivi, strumenti che mirano a scongiurare la guerra, limitando i poteri delle alleanze agli attacchi subiti. È il caso della Triplice alleanza, quando, nel 1882, il Regno d’Italia stipula un trattato con Germania e Austria. All’indomani della dichiarazione di guerra da parte dell’Austria, nel 1914, gli italiani invocano la neutralità, non essendo stati attaccati. Ma poi, nell’anno seguente, decidono addirittura di entrare in guerra contro gli stessi austriaci, con i quali era stato stipulato il patto.

Prima ancora, un super trattato di nome Zollverain era nato, nel 1833, per realizzare quell’unione doganale di 38 Stati, che sarebbe riuscita nell’impresa di unificare politicamente la Germania. Nato su base nazionale, lo Zollverain avrebbe creato un mercato unitario tedesco, rafforzando la coscienza del paese. Senza mai assumere il peso ingombrante di un organo politico, avrebbe assicurato alla Prussia l’egemonia economica, preparando il terreno a Bismarck. Nel 1871 l’unità politica ed economica tedesca coincidevano, grazie alla nascita dell’Impero.

Di trattati, come si è visto, è piena la storia. Non fa eccezione l’antichità, senza che per forza si debba usare il nome trattato. Dopo una guerra bisognava stipulare una pace. E cosa altro si faceva, se non stilare un trattato? Di questi trattati c’è sempre stato un grande bisogno nella storia dell’umanità.

È questo il caso del più antico trattato della storia, una tavoletta di terracotta vecchia di 5.000 anni, che sigla l’accordo di buone relazioni tra le città di Ebla, a 60 chilometri da Aleppo, e quella di Abarsal, sulle rive dell’Eufrate. Era il 2350 a.C.

È anche il caso analogo del Trattato di Quadesh del 1275 a.C., che chiude una delle battaglie più sanguinose della storia antica, tra gli Ittiti e gli Egizi, con il riconoscimento della reciproca legittimità dei due Regni e la definizione dei confini, oltre alla dichiarazione che i due popoli sarebbero rimasti alleati per sempre.

La parola trattato, derivata dal latino tractatus, è usata fin dall’antica Grecia per indicare anche un componimento storico-filosofico o un’opera scientifica o letteraria, che giustappunto “tratta” in modo esauriente e con ordine metodico una particolare disciplina. In tutti questi casi si scrive, si compone, si pubblica un trattato.

Sono in molti ad adottare il sistema del trattato – si prenda il Tractatus theologico-politicus, di Baruch Spinoza, del 1670 – ma anche in questo caso, spesso e volentieri, senza conoscerne il nome. Non sempre era un nome che si sceglievano gli autori, ma veniva poi usato per riconoscere alcune loro opere: sono i casi della Poetica di Aristotele e dei Dialoghi di Platone, fino al De Vulgari Eloquentia di Dante Alighieri e al De Libero Arbitrio di Erasmo da Rotterdam. Spesso è quel “De” – preposizione impiegata in latino per dire “riguardo a”, “circa”, “intorno a” – a introdurre indicazioni precise su una specifica questione.

Non si può infine non ricordare Niccolò Machiavelli con il Principe, un trattato storico-politico a tutto tondo che l’autore definisce «opuscolo». Machiavelli detta la sua linea sul modo in cui il Principe dovrebbe agire per rendere sempre più forte il suo principato. Saranno però parole al vento.

C’è infine il complesso Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein, unica opera pubblicata in vita dall’autore, considerata uno dei testi filosofici più importanti del Novecento. Nel quale si legge: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere». O se si preferisce: «Di ciò di cui non si può trattare si deve tacere».

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