LA PAROLA

Tristezza

René Magritte, La clef des champs, 1933

Il gazzettino.it, martedì 27 febbraio 2018: L’orca piange disperata: ha perso la sua famiglia.

Il video è straziante.

Le immagini arrivano dal Giappone. Un’orca, rinchiusa nel Kamowaga Sea Worls, d’improvviso, sale spontaneamente sul bordo della piccola vasca e comincia a piangere. Il pianto è talmente lancinante che gli spettatori presenti rimangono sconvolti.

Perché l’orca improvvisamente fa questo gran balzo come spinta da una forza incontrollabile che non ammette alternative?

La lucentezza dei suoi colori netti, bianco e nero, è così vivida fuori dell’acqua che abbaglia gli occhi degli spettatori attoniti.

Il suo pianto che irrompe nell’aria è un grido di dolore acuto che penetra nelle viscere e percuote tutto l’essere tanto da far dimenticare la scena e far risuonare dentro ognuno di noi i tanti momenti della nostra tristezza, della nostra malinconia, delle pene, dei pianti disperati di quando… ci sentiamo soli, abbandonati a noi stessi, magari esclusi, derisi o inadeguati…

Il pianto dell’orca sembra non finire mai, inconsolabile, quasi un ultimo disperato tentativo di far sentire la sua presenza, di chiedere aiuto perché non vuole e non può rassegnarsi a una perdita senza ritorno, a una perdita così inestimabile come quella del senso della propria vita, ridotta ormai soltanto ad un inutile scandire del tempo, che diviene attesa dell’irreparabile, di un tempo senza futuro…

René Magritte, L’histoire centrale, 1928

Tristezza è profonda sofferenza, è anticipatrice di quel dolore acuto e diffuso che spesso devasta il cuore e la mente, che ti fa chiudere gli occhi e ti trasporta in un’altra dimensione dove la luce si è oscurata e procedi a tentoni nel cammino della vita…

L’orca di fronte all’inevitabile prigionia si lascia andare, rinuncia a proseguire nel pianto e scivola piano piano dentro quella vasca dove seguiterà a inseguire la sua famiglia (questi animali, intelligentissimi, vivono in famiglie, chiamate pod, e, quando scelgono un compagno o una compagna, sarà per sempre) che continua a solcare le acque dell’oceano seguendo l’impulso vitale della sopravvivenza. Entrerà in uno stato di depressione dal quale nessuno potrà mai sollevarla.

Già Darwin diceva: «Il mio scopo… è di mostrare che non c’è una differenza fondamentale fra le facoltà mentali dell’uomo e quelle dei mammiferi superiori».[1]

Così come per l’orca, anche per noi umani la profonda tristezza può virare verso la depressione.

La tristezza, che è uno stato d’animo spontaneo, ha infatti diversi gradi di intensità e si manifesta in molteplici forme e sfumature: dal semplice malumore e dalla scontentezza lieve al sentirsi giù, a pezzi, demoralizzati fino all’esser disillusi e sfiduciati, all’infelicità, alla disperazione e, se si prolunga per periodi molto lunghi, fino alla depressione, un vero e proprio status di disagio psico-fisico.

Se la tristezza è un’emozione naturale e passeggera, che svanisce con il tempo, la depressione rappresenta un malessere pervasivo che porta con sé non soltanto un pensiero tragicamente negativo carico di sfiducia e di pessimismo, ma anche una mancanza di energia, un’apatia e un’abulia che paralizza il soggetto.

René Magritte, Le souvenir déterminant, 1942

La tristezza è collegata a qualcosa che può sorgere quando una relazione significativa viene messa a rischio oppure quando viviamo un lutto, una separazione, un abbandono, quando perdiamo il lavoro o uno status sociale, perdita che ci sottopone ad una vera catastrofe dell’autostima. La tristezza ci assale di fronte al fallimento di un progetto in cui avevamo investito molte aspettative, di fronte a compiti rispetto ai quali non ci sentiamo all’altezza, di fronte ad un bisogno che non può essere soddisfatto, di fronte al rimpianto per aver commesso un errore rilevante e, forse, irreparabile… allora ci sentiamo addolorati, dispiaciuti, delusi, avviliti, insoddisfatti, incompresi, incapaci, ignorati, rifiutati, …

La tristezza, nei pochi casi in cui si indugia in essa, sfocia in una forma di autocompiacimento e autocommiserazione che porta solo a rinchiudersi in uno sterile vittimismo intriso di lamentele.

La tristezza, dai più, non è certo amata, ma è un’emozione da non soffocare: ci invita a fermarsi per comprendere e piangere tutte le lacrime che abbiamo dentro senza mascherarci dietro sorrisi forzati o serenità apparenti. Porta fuori le nostre fragilità che, troppo spesso, temiamo di sentire e di accettare.

Allora, potremmo ipotizzare che rappresenti un’energia che tenta di trasformare un “vecchio ordine” che sta morendo proponendone uno nuovo che stenta a nascere?

Potrebbe essere il detonatore che mette in atto nell’individuo un processo di cambiamento?

… forse…

[1] Charles Darwin, L’origine dell’uomo, Editori Riuniti,Roma,1971 pp.81

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