Umiltà è parola decisamente desueta. Dice il vocabolario: «virtù per la quale l’uomo riconosce i propri limiti, rifuggendo da ogni forma d’orgoglio, di superbia, di emulazione o sopraffazione». Ecco spiegata la disaffezione, senza dover aggiungere molto di più. Oggi infatti ben pochi riconoscono i propri limiti, anzi è un vanto fare grandi proclami senza sapere di cosa si parla. «Aboliremo la povertà», ha annunciato di recente un uomo di governo che evidentemente non ha molta dimestichezza con la parola umiltà.
Il termine deriva dal latino humus, cioè terra, quindi umile è colui che proviene dalla terra, che sta in basso. «So di non sapere», diceva Socrate. Riconoscere i propri limiti, e quindi agire con umiltà, è il punto di partenza per crescere e migliorarsi. L’umiltà ha come presupposto il bisogno di capire e di conoscere, quindi potremmo definire questa parola il contraltare di un decisionismo improvvisato. L’umiltà, come la pazienza, sono state più volte indicate come le virtù dei forti.
«C’è bisogno di un bagno di umiltà», si sente dire spesso da chi predica l’umiltà ma poi magari non la persegue. Tra i politici sconfitti alle elezioni è ritornello ricorrente. La frase è abusata anche nello sport, come dimostrano le dichiarazioni di tanti allenatori di calcio di fronte ad una secca sconfitta della loro squadra.
Si parla di umiltà di condizione, di nascita, di mestiere. Ma, attenzione, sono esempio di umiltà grandi uomini della storia, basti pensare a Gandhi. Se l’umiltà è considerata un sentimento improntato alla consapevolezza dei propri limiti, talvolta rischia di diventare negativa quando arriva ad esprimere solo sottomissione o avvilimento. Si trova anche come sinonimo di riservatezza. Si può avere, dimostrare o fingere umiltà. «Troppo pieno di sé, non ha un minimo di umiltà».
Dante dice di Beatrice: «Ella si va sentendosi laudare benignamente di umiltà vestuta». L’umiltà è una delle virtù cristiane. Sulla porta di Andrea Pisano del Battistero di Firenze figura anche un’allegoria dell’umiltà.
